Nelle stesse ore in cui in Francia più di un milione di persone manifestavano contro la riforma delle pensioni di Macron, il fronte dell’austerità ha battuto un colpo a Davos, in Svizzera. La bandiera l’ha rialzata il premier olandese Mark Rutte che ha ricordato a tutti il senso del conflitto politico in corso dopo la pandemia.
In un confronto al Forum economico mondiale con la presidente della Bce Christine Lagarde e il vice presidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis Rutte ha criticato la spesa pensionistica: «Dobbiamo fare riforme strutturali, in particolare delle pensioni, se si guarda all’Italia, alla Francia e altri spendono dal 10 al 15% del Pil nelle pensioni» togliendo risorse che potrebbero aiutare le famiglie contro l’inflazione. Dobbiamo ridurre l’indebitamento pubblico, che è ancora troppo alto in Italia, in Francia ed altri Paesi, alcuni grandi, e appesantisce la crescita».

Affermazione infondata perché la crescita non dipende evidentemente dal taglio del Welfare, e tanto meno da quello delle pensioni. Tra l’altro in Italia la spesa pensionistica è calcolata insieme a quella dell’assistenza, come più volte ha osservato Felice Roberto Pizzuti. E, proprio in virtù delle drammatiche riforme imposte dalla metà degli anni Novanta fino a quella «Fornero», in prospettiva il sistema è considerato in equilibrio. A costo di un aumento dell’età pensionabile (67 anni) tra le più alte in Europa e di un probabile ulteriore aumento. Un paese di pensionati poveri e di precari che dovranno lavorare ipoteticamente anche oltre i 70 anni. Questo è l’inferno che ci aspetta in Italia. Ed è questo che rifiutano in Francia sin dal 1995, dalla riforma del governo Juppé. Una linea di resistenza che cerca di articolarsi, con difficoltà, anche su altri diritti sociali. Ma che sembra ancora tenere rispetto a paesi, come il nostro, dove le casematte sono state travolte da un pezzo senza un’opposizione minimamente paragonabile a quella francese.

Altri elementi utili per comprendere lo scenario della policrisi in cui ci troviamo sono arrivati ieri da Davos dove i governi si incontrano e fanno marketing politico. Ora, insieme ai mercati, scommettono sulla «ripresa». Lo shock energetico esploso con l’aggressione russa in Ucraina, ma iniziato ben prima durante la prima fase più acuta del Covid, non sembra portare l’Europa neoliberale verso il baratro. L’ottimismo ha portato Carlo Bonomi, il presidente di Confindustria, a parlare di un «anno caratterizzato per i primi sei mesi da alcune difficoltà. Nel secondo semestre l’economia dovrebbe riprendere in maniera robusta». È una valutazione che trova un riscontro nella previsione della Banca Centrale Europea su una «recessione breve e superficiale». Ciò non toglie che, per l’Italia, il taglio alla previsione della crescita resta drammatico rispetto al 2022: più vicino allo zero che al 3,9%.

Resta il fatto che l’epoca del «Whatever It Takes» di Draghi alla Bce è definitivamente tramontata. E con essa la speranza dell’Italia di aprire l’ombrello sugli interessi del suo debito. In più, è confermata la strategia del rialzo dei tassi di interesse dei banchieri centrali ritenuta necessaria per contenere la fiammata dell’inflazione causata da un surplus di profitti e non dai salari come paventano in molti con poche ragioni. Per Lagarde (Bce) la quale trova «troppo alta» l’inflazione nell’area euro al 9,2% e, per questo, è determinata a tenere «la barra dritta fino a quando saremo entrati in territorio restrittivo abbastanza a lungo per riportare velocemente l’inflazione al 2%». Senza paura di risultare enfatica Lagarde trova il mercato del lavoro «vibrante». Con una disoccupazione «ai minimi da 20 anni». Mai, in queste considerazioni, si fa notare che la qualità del lavoro, e la sua produttività, sono a dir poco modesti. E che i salari restano al palo. Perlomeno in Italia dove sono sostanzialmente fermi dagli anni Novanta. Proprio quando iniziò la stagione delle «riforme» neoliberali su pensioni, Welfare, istruzione e lavoro.