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David Crosby, il pirata che non smette di sognareOggi c’è una stella in più che brilla in quel firmamento che non vorremmo esistesse, la volta celeste di chi ha reso memorabile la controcultura libertaria germogliata negli anni ’60, consegnata poi con urgenza al decennio successivo, prima di dover subire l’offesa furibonda del «ritorno all’ordine» dei soldi, della guerra, dell’autoritarismo beota contro i più fragili, delle patrie, dei confini. Brilla ora in quel firmamento accanto a Ferlinghetti, a Paul Kantner, a Ginsberg anche la stella di David Crosby, spirito vero della California libertaria e californiano doc, fiaccato a ottantuno anni dopo una lunga lotta contro la malattia. Come ha intitolato un suo splendido libro qualche anno fa Marco Grompi, «L’ultimo eroe dell’era dell’Acquario».

FACILE, per chi sta dall’altra parte della storia, quella dei manganelli, ricondurre il Signor hippie della musica David Crosby all’immagine degli ultimi anni, un acciaccato gentiluomo anziano con i capelli a filacce e i baffoni da tricheco imbiancati. David Crosby è stato ben altro: dirompenza creativa, intelligenza e cultura musicale pura, equilibrio vertiginoso sui due estremi di una radiosa felicità da comunicare al mondo – con le canzoni e mani impareggiabili sulla chitarra – e momenti di cupa disillusione in un tunnel reso ancor più oscuro dalle droghe che lo rendevano scostante e paranoico. Ma sempre pronto a riprendersi e sollevarsi da solo, sul bordo del precipizio, con il gesto del Barone di Münchhausen.

Crosby, Still Nash & Young in uno scatto anni settanta

Nelle parole secche di Bob Dylan sul suo libro Chronicles, «Una figura colorita e imprevedibile, che andava d’accordo con poche persone, aveva una bella voce, era un architetto dell’armonia, e camminava sul bordo della morte anche allora, nel 1970»: la voce in realtà, invidia personale di Dylan stesso, è stata una delle più memorabili dell’intera storia della popular music, arazzo policromo di armonici che viaggiava su un tappeto di accordi strani, complessi, radiosi. Questi ultimi figli di un attento amore di Crosby per il jazz a partire dal suo eroe personale, John Coltrane. La Guinnevere di Crosby, non a caso, sarà uno delle rare ballate rock messe in repertorio da un altro gigante del ’900, Miles Davis.

L’IMPREVEDIBILITÀ indicata da Dylan ci sta tutta, la passeggiata sul bordo della morte un periodo ben circoscritto della sua vita, marcato a fuoco da un trapianto di fegato e una vita successiva di medicine, di riconquista degli affetti, di clamorose impennate creative inimmaginabili in un uomo così provato. Il primo indicatore della storia del rock ce lo consegna con i Byrds, il gruppo innovativo con cui il garage americano vira verso il folk psichedelico e il raga rock con le influenze orientali: stesso periodo di un altro grande assente, ora, dalla scena rock, Jeff Beck con gli Yardbirds in Inghilterra. Il momento di Mr. Tambourine Man di Dylan trasformata in uno scintillio di colori, della cavalcata psych- jazz di Eight Miles High ispirata da Coltrane e da Ravi Shankar. Tutti gli amici californiani lo aiutano per il suo primo disco solistico del ’71, If I Could Only Remember My Name: è un capolavoro che regge ogni sfida col tempo

Nel ’67 Crosby lascia i Byrds, frequenta Stephen Stills dei Buffalo Springfield (dove suona anche un altro futuro sodale, Neil Young) e tutto il bordo più vitalmente creativo e libertario della California alternativa, i Jefferson Airplane, i Grateful Dead. Scrive un brano meraviglioso talmente provocatorio nel testo che perfino i Byrds riavvicinatisi a lui rifiutano: si intitola Triad, è un inno al poliamore, e dice «Il fantasma di vostra madre si erge alle vostre spalle con un’espressione di ghiaccio / e forse anche più gelida / e vi dice ”non potete farlo”, infrange tutte le regole imparate a scuola / ma davvero non riesco a capire, perché non possiamo continuare in tre?». Diventerà patrimonio del supergruppo della California rock e delle inarrivabili prodezze armoniche di quel giubilante mazzo di voci intonate che si fondono assieme: Crosby, Stills, Nash & Young. Quattro personalità troppo diverse per darsi un assetto duraturo, ma una chimica inimitabile nelle voci, appunto, e nella padronanza strumentale. Con loro Crosby incide la canzone che una giovane dama canadese provetta chitarrista gli ha voluto regalare, avendo intessuto con lui anche una fulminante storia di passione: la canzone è Woodstock, la dama Joni Mitchell.

TUTTI GLI AMICI californiani lo aiutano per il suo primo disco solistico del ’71, If I Could Only Remember My Name: è un capolavoro che regge ogni sfida col tempo, celestiale e minaccioso assieme nel definire i contorni della fine di quell’epoca, come aveva intuito anche Jim Morrison dei Doors. Per Crosby sarà un decennio almeno di passione, poi: scarsa lucidità, il panico dopo l’assassinio di John Lennon, il carcere, il fisico che non regge più lo stordimento chimico. Ma Crosby rinasce. Nella bellezza: ha ritrovato un figlio perduto, James Raymond, musicista, con lui mette assieme il supertrio CPR che produce un raffinato folk rock jazzato e innovativo, vicino agli Steely Dan e al Mingus di Joni Mitchell. Era stato in silenzio per anni, ora sforna dischi uno dopo l’altro, belli e pacificati. A chiudere il cerchio, l’ultimo si intitola For Free, ancora una volta è un brano di Joni Mitchell a far da guida. Sul palco ora sale con giovanissimi cantautori, la testimonianza finale è nello splendido Live At The Capitol Theatre, di pochi giorni fa. Con i CPR aveva inciso nel 2001 un brano, Map to Buried Treasure, la mappa per il tesoro nascosto e riportato alla luce: sta a noi, ora, continuare a farlo splendere.