David Crosby, il pirata che non smette di sognare
Musica «Remember My Name», il documentario di A. J. Eaton ritratto senza sconti di un artista geniale
Musica «Remember My Name», il documentario di A. J. Eaton ritratto senza sconti di un artista geniale
«Zuppa di vongole rossa o bianca? – Nessuna delle due», «È peggio Nixon o Trump? Trump», «Che ne pensi di Fela Kuti? E’ un tipo di pasta?»
David Crosby adora Twitter. Fategli una domanda e avrete una risposta, anche se non siete Cameron Crowe. Il regista di Almost Famous lo intervistò la prima volta nel 1974 dopo vari tentativi andati a vuoto, aveva sedici anni ed era un imberbe giornalista di Rolling Stone. A distanza di più di quarant’anni, Crowe ha deciso di restituirgli il favore: stavolta ha accettato lui di intervistarlo per Remember My Name, il documentario di A. J. Eaton che aveva bisogno di una spinta. «Perché sei ancora vivo?», gli ha chiesto a bruciapelo. «Non ne ho idea», risponde Crosby che in novanta minuti si confessa, si commuove e conquista gli spettatori con il suo carisma e le sue grandi doti di storyteller. «Let Crosby be Crosby» è la filosofia a cui regista e produttore si sono ispirati, un’intuizione che ha dato risultati eccellenti. Dopo l’accoglienza trionfale all’ultimo Sundance Festival, il documentario è stato acquistato dalla Sony e a luglio è uscito nelle sale americane.
È significativo che Remember My Name arrivi sugli schermi nell’estate dei cinquant’anni di Woodstock. La pellicola è il ritratto senza sconti di un musicista geniale, un uomo dall’esistenza turbolenta e dal carattere impossibile che finalmente ha fatto pace con se stesso. Il film gli ha offerto un’occasione catartica di guardare in faccia i suoi errori e chiedere scusa a molte persone, a cominciare dalle donne che ha maltrattato («Ero molto egoista come amante e come persona») e ai vecchi compagni di strada che non gli parlano più.
NEMMENO Graham Nash, che per lui ha sempre avuto un’ammirazione sconfinata. Nell’autobiografia Wild Tales lo descrive come una persona generosa, irriverente, con un senso dell’umorismo micidiale, una voce da favola e un’energia potente, uno spirito libero che diceva sempre quello che pensava (perfino a Miles Davis a proposito della sua versione di Guinnevere), un edonista che aveva sempre l’erba migliore e le donne più belle ed erano sempre nude. Nel 2016 gli ha pure dedicato una canzone, Encore, per chiedergli «Chi sei veramente quando ti guardi allo specchio? Sei una brava persona o sei uno stronzo?». Oggi a quella domanda Crosby risponde elencando le sue nuove regole di vita: essere una persona decente, prendersi cura della sua famiglia e – appunto – non fare lo stronzo.
ANCHE ADESSO che si è messo in riga, ha la stessa espressione da furfante che aveva da giovane. È rimasto il ragazzo che Grace Slick dei Jefferson Airplane descriveva così: «Non avevo mai conosciuto nessuno così interessato alle cose, così pieno di gioia, spontaneo e reattivo. Lo guardavi in faccia ed eri felice perché vedevi un essere umano entusiasta come un bambino». Oggi la furfanteria è addomesticata dallo stupore di essere ancora vivo ed è mitigata dalla saggezza di chi a ogni istante è costretto a fare i conti con la sua mortalità. David Crosby resta un pirata anche senza più il leggendario veliero Mayan su cui scrisse capolavori come Wooden Ships, il volto segnato dalle intemperie di un’esistenza furibonda, negli occhi il lampo di uno spirito indomito.
«CONSIDERO questo documentario la versione di Crosby di One of These Days di Neil Young», dice Cameron Crowe. «Uno di questi giorni mi siedo e scrivo una lunga lettera a tutti i grandi amici che ho avuto. Cercherò di ringraziarli per i bei tempi passati insieme anche se ci siamo così allontanati», recitano i versi della canzone.
David Van Cortlandt Crosby è nato il 14 agosto 1942. Invertendo due cifre il suo anno di nascita diventa quello della scoperta dell’America, continente dove i suoi avi hanno avuto un ruolo importante. Da parte di entrambi i genitori discende da aristocratiche famiglie olandesi che fondarono New York e gli Stati uniti. Il padre Floyd fu uno stimato direttore della fotografia a Hollywood e uno dei primi premi Oscar. La recitazione fu un’ipotesi fugace anche per David, finché non si rese conto che un attore per rimorchiare deve aspettare che esca il film, magari dopo due anni, invece imbracciando una chitarra i risultati sono immediati.
LA MUSICA fu una scoperta precoce. Quando aveva circa quattro anni la madre lo portò a sentire un concerto di musica classica in un parco. Arrivarono presto e si sedettero tra le prime file. Il piccolo David era rapito dai suoni caotici e selvaggi dei musicisti che accordavano gli strumenti. Quando l’orchestra attaccò a suonare, la potenza della musica gli si rovesciò addosso come un’onda: «Ho capito che la forza veniva dal fatto di suonare insieme. Quando fai musica da solo è una gioia, quando suoni con un altro essere umano c’è uno scambio. Se tutto ciò lo dai al pubblico, l’energia ti ritorna indietro, potente, incredibile, palpabile. Ho sempre desiderato stare in un gruppo». Cominciò in duo con Terry Callier, poi con The Byrds (per cui scrisse il capolavoro Everybody’s Been Burned) e con Graham Nash e Stephen Stills.
IL LORO SECONDO concerto insieme è sul palco di Woodstock, dove arrivano in elicottero sorvolando la folla oceanica. Hanno una strizza matta, come Stephen Stills dice al microfono, anche perché nel retropalco ad ascoltarli si è riunita l’aristocrazia del rock. Nel 2019 non solo il concerto del cinquantenario è stato annullato, ma sul mondo sono calate le tenebre del trumpismo. Eppure David Crosby, 78 anni, otto stent, il diabete, l’epatite C, un fegato trapiantato (pagato dall’amico Phil Collins) e tre infarti, crede ancora nel suo unico talento: «La musica ha il potere di tirarti su, la musica rende le cose migliori», dice.
È SEMPRE stato così. Anche quando sei una rockstar milionaria che ha tutto dalla vita ma la vita finisce improvvisamente, come avvenne per lui il 30 settembre 1969. Un mese e mezzo dopo Woodstock, il giorno in cui il primo album di Crosby, Stills e Nash diventa disco d’oro, Christine Hinton, la sua fidanzata preferita, sale in macchina per portare i gatti dal veterinario: uno le salta in grembo e la graffia, lei sterza, l’auto si schianta contro uno scuolabus e Christine muore sul colpo. Da quel dolore da fine del mondo nasce If I Could Only Remember My Name, il primo album solista di David Crosby. Più che un disco uno stato d’animo: «Il mio livello di comprensione era quello di una formica a cui hanno strappato le zampe», dice di quel periodo.
CSN&Y vivranno la gloria, gli eccessi e le nefandezze dello stardom, scoppieranno come gruppo, torneranno insieme per soldi, finiranno per odiarsi. Crosby entra in una spirale autodistruttiva: una tossicodipendenza devastante che nel 1982 dopo una breve latitanza lo spedisce per nove mesi in una prigione del Texas. Ci saranno ricadute, altri arresti, gravi problemi di salute e di denaro, poi anziché inabissarsi definitivamente, risorge. Gli ultimi anni sono stati molto prolifici: è sempre in tour per guadagnarsi da vivere, pubblica un disco dopo l’altro e canta che è una meraviglia. Guardate la recente versione di Long Time Gone durante lo show di Jimmy Fallon e vi troverete a desiderare ardentemente un tour di Croz con The Roots.
LUI nel frattempo non smette di sognare: spera di diventare ricco con il suo marchio di cannabis Mighty Croz, finire il nuovo album e vedere un mondo migliore grazie a Greta Thunberg e Mayor Pete, ovvero Pete Buttigieg, il giovane sindaco di South Bend (Indiana) candidato alle primarie del Partito Democratico, omosessuale e sposato. «Ma non vincerà, l’America non è ancora così civilizzata», twitta e allora tifa per Kamala Harris ed Elizabeth Warren, «perché è ora di una presidente donna».
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