È il 7 febbraio del ’96 quando la poeta israeliana Yelit Yeshurun (Tel Aviv 1942), responsabile della prestigiosa rivista «Hadarim», va a trovare ad Amman, per intervistarlo, il grande maestro palestinese Mahmud Darwish (1941 – 2008), che ha alle spalle anni di prigione in Israele e di esilio (specialmente a Parigi, per circa un decennio) così come una longeva attività di militante, prima fra i comunisti arabo-israeliani poi nell’OLP di Arafat. Il colloquio avviene a ridosso degli accordi di Oslo ed è ancora forte la costernazione per l’assassinio di Rabin, ad opera di un ebreo israeliano di estrema destra, il 4 novembre precedente.

Ma tra i due poeti c’è stato un incidente quando nel 1988 «Haradim» ha rifiutato di pubblicare Darwish, lasciando le pagine della rivista in bianco, a seguito di una sua poesia scritta nel corso della prima Intifada, O voi passanti tra fuggevoli parole, dalla rivista ritenuta offensiva e comunque mai più raccolta nei volumi a stampa dello stesso Darwish. Il quale, accogliendo Yeshurun, decide di esprimersi in ebraico a riprova del fatto che esiste una speranza tangibile di incontro e che la lingua (appunto l’ebraico di un esule non ebreo) può essere occasione di incontro e di scambio o, meglio, di una vera e propria intersezione.

Ne esce una bellissima intervista, ora accessibile anche al lettore italiano, Con la lingua dell’altro (Portatori d’acqua, «Scorciatoie», pp. 155, euro 15.00), nell’esemplare curatela di Francesca Gorgoni. Per parte sua, Darwish nega ogni astratta metafisica identitaria e preferisce rinvenire nella propria parola tanto il rigetto della cattività patita dal suo popolo in Israele quanto la critica di chi tra i palestinesi nega la necessaria conoscenza e comprensione della alterità, pure se nemica: «Non posso ignorare il posto che Israele occupa all’interno della mia identità. Esiste nonostante quello che penso di lei. È una realtà fisica e spirituale». Darwish evade la diade preventiva di servo e padrone perché mira alla integrità umanistica e infatti la individua nella comune radice dell’esilio e nella nostalgia per al-Andalus, l’antica Andalusia, da cui arabi ed ebrei furono parimenti cacciati. Senza perciò confondere, al presente, dominatori e dominati, signori e subalterni: Mahmud Darwish diceva infatti di sentirsi un poeta troiano perché sono stati solamente i vincitori, mai gli sconfitti, a raccontare la guerra di Troia.