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Gino Strada: «La vera insicurezza è incitare all’odio contro chi sta peggio»

Gino Strada: «La vera insicurezza è incitare all’odio contro chi sta peggio»Gino Strada, fondatore di Emergency

Guerre Intervista a Gino Strada: «La realtà di oggi preoccupa, c’è chi soffia sull’odio, chi inneggia alla violenza: siamo già dentro un nuovo fascismo. In Italia nessuno chiede perché, con milioni di poveri, abbiamo una spesa militare di miliardi»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 15 maggio 2019

«Com’è possibile aver fatto negli ultimi 200 anni delle scoperte incredibili, realizzato cose impensabili in tutti i campi, nella medicina, la chimica, le nanotecnologie, ma non essere stati capaci di progredire sul piano etico? Capire che ammazzarsi tra noi è un non senso, è contronatura».

Gino Strada la guerra la conosce bene. La conosce bene Emergency, l’associazione che fondò nel 1994 per offrire cure mediche gratuite alle vittime dei conflitti. In Africa, in Iraq, in Afghanistan e, a breve, in Yemen.

Dei 25 anni di Emergency abbiamo parlato con Gino Strada, in occasione dell’inaugurazione della mostra fotografica Zakhem di Giulio Piscitelli.

Il sottotitolo della mostra è «La guerra a casa». Perché?

Le foto di quei pazienti indicano chiaramente che sono dei civili anche se per lo più indossano i vestiti bianchi degli ospedali. È nei villaggi, le città, le case che si combatte la guerra e le vittime sono chi ci abita. Credo che sia una bella mostra: Giulio ha fatto un ottimo lavoro fotografando i pezzi di metallo, schegge, proiettili che i chirurghi toglievano in sala operatoria. C’è la foto del paziente e di cosa lo ha conciato così. È una delle tante iniziative che stiamo mettendo in cantiere.

Può tracciare un bilancio di 25 anni di attività di Emergency?

Sono stati 25 anni utili. Utili a tantissime persone perché ne abbiamo curate più di 10 milioni nel mondo. Però sono stati utili anche a noi: abbiamo imparato tanto. Non solo cose di medicina e chirurgia ma anche cose sulla guerra e sul mondo, su noi stessi.

Tra i paesi in cui siete oggi attivi c’è lo Yemen, che più di altri oggi rappresenta il nuovo «modello» bellico: guerra a dei civili, guerra dimentica, guerra per procura, guerra internazionale attraverso la vendita di armi. Come leggete il vostro impegno lì?

Non siamo ancora operativi, è tutto pronto ma stiamo aspettando le ultime autorizzazioni dal punto di vista della sicurezza. Saremo ad Hajjah. È difficile fare previsioni su cosa ci troveremo di fronte. Lo Yemen è il paese con il peggior disastro umanitario a livello mondiale, regolarmente ignorato da quattro anni. Faremo un ospedale per feriti di guerra con i soliti nostri criteri: i feriti sono i feriti, senza ulteriori specifiche su come la pensano o da che parte stanno. Faremo il nostro lavoro professionale. C’è da fare poi un discorso sulla nostra politica che continua a tollerare la vendita di armi prodotte in Italia da una ditta tedesca all’Arabia saudita che le usa in Yemen. Nessuno può nascondersi dietro un dito: ci sono accordi commerciali. Ma a essere assolutamente prioritario è il diritto della popolazione yemenita a restare viva e non essere bombardata.

L’Italia in Yemen è presente con le bombe fabbricate a Domusnovas dalla Rwm in violazione della legge 185/1990. Emergency in passato è stata promotrice della campagna per la messa al bando delle mine antiuomo. La vostra presenza in Yemen, oggi, potrà darvi una voce più forte?

Penso che le due cose siano assolutamente legate: un’organizzazione che va in Yemen per cercare di salvare vite umane non può essere d’accordo con il buttare bombe e con chi le fornisce. A parte differenze sostanziali per cui stavolta abbiamo di fronte una fabbrica tedesca e non italiana, ci sono condizioni analoghe al caso delle mine antiuomo: il governo dice un sacco di bugie. Quello che potrebbe fare subito è una moratoria. Cominciamo a dire che anche in assenza di una legge questa cosa non si fa più e che dall’Italia non esce più neanche un serramanico diretto a un paese in guerra. Penso che un decreto di moratoria possa essere portato in parlamento in 10 giorni.

Guerra e casa sono termini dissonanti, soprattutto per un’Europa che dichiara con orgoglio di essere priva di conflitti dal 1945, dimenticando spesso i Balcani. Ma questa assenza è relativa esclusivamente al proprio territorio: l’Europa è parte attiva nei conflitti che si consumano in altri paesi, con vendita di armi, prese di posizioni diplomatiche, partecipazione a campagne militari e, non da ultimo, indifferenza.

Bisognerebbe ricominciare a studiare com’era l’Europa alla fine della guerra. Me lo immagino un ambiente lugubre e spettrale, attraversato da milioni di persone in cerca di qualcosa da mangiare, con cui coprirsi. Questa era l’Europa del primo dopoguerra. Dovrebbe chiarire le idee ad alcuni che hanno la scappatoia della guerra come soluzione dei problemi. Rischiamo di ricadere nella stessa retorica, nella stessa spirale: siamo già dentro questa situazione, la macchina gira di nuovo. Anche a livello internazionale i dati sono questi: non si sta andando verso un mondo più pacificato, ma verso un mondo che sta preparando e in parte attuando forme di guerra. La questione della guerra è etica ma che ha anche un impatto politico enorme: nel paese non c’è un partito che intenda costruire un percorso per uscire dalla guerra come prospettiva storica e che chieda cosa facciamo in un’alleanza militare, perché dobbiamo spendere miliardi in armi quando abbiamo milioni di poveri. Se oggi si fanno queste domande alla classe politica la risposta è trasversale: «la guerra è brutta però», «non va fatta ma». Gli scienziati atomici lo dicono da anni: per il rischio guerra e per come stiamo trattando questo pianeta, non abbiamo una prospettiva rosea se non interveniamo immediatamente e drasticamente.

Emergency da anni combatte la guerra e i suoi effetti, la fame, le malattie, migliora le condizioni di vita delle persone. Attività umanitarie ma che hanno un valore politico: la vostra presenza in determinati contesti «politicizza» la narrazione dei conflitti, perché ne svela le ragioni. È tornato il tempo, a sinistra, di approcciarsi ai conflitti, militari o sociali, da un punto di vista politico e non solo umanitario?

Penso che ci si debba approcciare al tema guerra con un pensiero profondo e nuovo che è quello esortato nel manifesto di Russell-Einstein del 1955. Un pensiero nuovo che deriva dal fatto che viviamo nel periodo atomico, la più grande discriminante tra il nostro periodo e quello precedente. Si deve andare verso l’abolizione della guerra come suggeriva Einstein prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. E invece si aumentano le spese militari: l’anno in cui le spese militari italiane sono aumentate di più è stato sotto il governo Renzi. C’è, se non unanimità di vedute, almeno di comportamenti.

Tra le guerre che l’Europa oggi combatte c’è quella alle persone: si moltiplicano i muri fisici e quelli politici e simbolici che hanno effetti devastanti sia su chi tenta di arrivare qui sia sulle società europee, incattivite e vittime di un annientamento della solidarietà sociale. Come legge oggi la natura delle società europee?

Non ho grande fiducia nell’onestà delle generalizzazioni o dei sondaggi. Vedo che c’è chi soffia sull’odio, chi ha voglia di vedere l’odio spandersi a macchia d’olio, chi inneggia di nuovo alla violenza. È triste perché ti dice non ci siamo sviluppati molto. Quanto ci mettiamo a fare dei passi avanti dal punto di vista etico? Se avessimo una popolazione più attenta e istruita, si potrebbe chiedere conto ai politici che si candidano a rappresentarci. Non sono idee generali, ma cose specifiche semplici: la guerra non si può fare, non solo perché c’è un decreto che la vieta ma perché nel mondo atomico, con le armi che abbiamo sviluppato, non possiamo più permetterci la guerra. Abbiamo creato la possibilità della nostra autodistruzione. Il fare a meno della guerra diventa obbligatorio, non una mera scelta etica, ma un meccanismo di sopravvivenza.

Veniamo all’Italia, recentemente ha detto che Salvini porta con sé l’elemento caratteristico del fascismo: il razzismo. Che pericolo corriamo?

Credo sia sbagliato parlare di pericolo: questa è una realtà. Quando i ministri cominciano a non fare i ministri, ma vanno in giro a dire la qualunque, sempre più circondati da un alone di militarismo, la cosa preoccupa molto. E mi preoccupa l’assoluta mancanza di umanità. Non dovrebbe essere prendersi cura dei cittadini il lavoro di chi deve garantire la sicurezza? Mi pare invece sia un lavoro orientato a ignorare i cittadini e spingerli a puntare il dito contro chi sta più in basso. Non si punta mai il dito in alto: perché ci sono milioni di poveri in Italia, non si dice mai.

Il ministro dell’Interno parla in questi giorni di un decreto sicurezza bis che prevedrebbe multe a chi salva vite umane in mare. Si sta superando un’altra linea rossa? La criminalizzazione della solidarietà avrà effetti duraturi sul nostro paese?

Questa proposta è allucinante. È frutto di questo clima: siamo già dentro questa nuova forma di fascismo, che non si presenterà negli stessi termini della volta precedente ma non sarà meno dannosa. Avere sempre come nemico chi sta peggio e impostare questa contraddizione sulla paura dell’altro è un modo di pensare, prima che di comportarsi, che speravo sparito nella mentalità degli europei. Invece no. Negli intermezzi tra le tragedie non riusciamo mai a trovare il bandolo della matassa. La Dichiarazione universale dei diritti umani a distanza di 90 anni non è stata integralmente applicata da nessun paese firmatario. Erano i principi che dovevano orientare la politica dei governi, ma nessuno è andato in quella direzione.

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