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Dall’Arabia saudita si alza la voce delle sirene

Dall’Arabia saudita si alza la voce delle sireneUna scena dal film Scales di Shahad Ameen

Cinema arabo Shahad Ameen debutta a Venezia raccontando la condizione femminile in Medio oriente con una favola nera

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 7 settembre 2019

Alla Settimana della Critica di Venezia, ha debuttato un’altra storia al femminile dall’Arabia del sud: Scales di Shahad Ameen, regista Saudita, è una favola nera, austera, viscerale, atavica. Una storia ambientata in un villaggio di poveri pescatori. In una notte di luna piena i padri gettano a mare le loro neonate, come sacrifico al mostro-sirena, per garantire la prosperità della loro reti. Una notte, un padre decide di andare contro il rito e salva la figlioletta. Hayat è adolescente e quando la miseria si abbatte sul suo villaggio, viene accusata di arrecare la mala sorte al villaggio. Una storia di sirene, pretesto per raccontare un mondo di uomini, e la difficoltà delle donne di trovare uno spazio per esistere. La regista Shahad Ameer, incontrata al Lido dopo la prima del film, con un abito rosso scarlatto è nata a Jeddah, in Arabia Saudita, il padre è di Medina, la città dove è sepolto il profeta, la madre siriana di Damasco. Ameen è cresciuta in Arabia Saudita dove ha vissuto gran parte della sua giovinezza. A 17 è andata a vivere a Londra per studiare cinema poi per un periodo ha vissuto in Spagna. Il suo film «È una metafora sulla difficoltà delle donne del mio paese, di trovare spazi per esprimere il proprio immaginario», racconta con tono vivace la regista, «Come donne ci sentiamo “monouso” a disposizione degli uomini, esseri sostituibili, non apprezzate. Volevo rivelare una storia che esprimesse questa condizione. È un problema che ha radici lontane, per questo ho scelto di andare indietro nel tempo ed attingere ad un mito antico. Il fatto delle neonate sacrificate in mare, viene narrato in una leggenda araba pre-Islamica che ha tante versioni. Ho scelto la variante siriana che racconta di neonate seppellite vive, dai loro padri, come sacrificio agli dei. Ho pensato che questa fosse una metafora perfetta per esprimere la condizione della donna nel mio paese».

È ancora una sventura avere una figlia femmina piuttosto che un maschio nel suo paese?
L’arrivo di un figlio maschio è un onore, invece quello di una femmina è una disgrazia. Temono che arrechi disonore alla famiglia. Una figlia femmina comporta spese e non porta soldi, sono considerate fardelli economici. Ovviamente il rito del film era in uso in epoca pre-Islamica ed è stato abolito molti anni fa. Nonostante questo continuano ad esserci casi isolati. Mi ricordo alcuni anni fa, della notizia di un padre convertito all’Islam che ha seppellito la figlia viva di sei anni. Quando l’ha sotterrata, lui raccontava che la figlia era ancora viva e gli ha tolto la sabbia dalla barba. Questa storia è rimasta incisa nella mia vita e in qualche modo mi ha ispirato per questo film.

Nel film viene rappresentato il lavoro dei pescatori, un mondo di uomini, c’è solo una donna, è un po’ quello che è accaduto con lei sul set?
Avere una regista sul set nel mio paese non accade spesso. Mi sono sentita considerata più come donna che come regista. Ma questo accade per tutti i lavori. È una sfida quotidiana. La cosa positiva è che sul set non ho problemi a fare sentire la mia voce per ottenere quello che voglio, anche a costo di urlare. In questo caso, culturalmente se urla un uomo regista sul set è normale ma una donna regista che urla è assolutamente inaccettabile. Io l’ho fatto divertendomi. Alla fine mi sono conquistata la loro fiducia. Nella nostra cultura è normale per una donna servire gli uomini, ma è assolutamente nuovo per un uomo accettare ordini da una donna, è qualcosa che va costruito ex novo. È una società totalmente patriarcale. È questo ordine costituito che la mia protagonista cerca di sovvertire. Volevo raccontare una storia con onestà, una storia che mi rispecchiasse, che contenesse le mie emozioni, il mio carattere. Volevo rivolgermi a un pubblico ampio.
È difficile lavorare in un’industria dominate da uomini, ma posso osservare negli anni il lieve cambiamento che sta avvenendo. Ci sono più donne che decidono di andare controcorrente e in qualche modo più padri che decidono di salvare le loro figlie. Ora sento che nel mio campo c’è qualcuno che comincia a notare e apprezzare quello che ho fatto, il mio primo corto e ora questo film. Cresce la gente che vuole sentire la mia «voce».

È stato difficile trovare produttori per il film?
È stato fondamentale trovare qualcuno che credesse nel mio film. All’inizio mi sono sentita dire «non è un progetto possibile, è una storia noiosa, tutta in bianco e nero». Ma poi ho trovato produttori che hanno creduto in me e non hanno influenzato le mie scelte artistiche, altrimenti non avrei fatto il film, non sarei scesa a compromessi.

Ci sono due elementi che predominano nel film, una è la sofferenza della protagonista, che da frustrazione si trasforma in dolore fisco, l’altra è l’acqua che contiene un mostro ma alla fine rappresenta il miracolo.
Sono due aspetti cruciali del mio film. La mutazione del corpo della donna in sirena rappresenta la lotta della donna per sopravvivere nel proprio corpo. È un allegoria di quello che accade all’adolescente che assiste alla trasformazione del suo corpo da bambina a donna. Tutto cambia con questa trasformazione fisica. Da bambina giocavo con i miei coetanei e improvvisamente, con il corpo che matura mi è stato detto non puoi giocare più con i tuoi amici, non puoi giocare a football. Come l’aspetto della sirena che prende il sopravvento sulla protagonista del film. Nel momento del mestruo, il corpo comincia a ribellarsi e l’adolescente si chiede «perché sto cambiando, perché mi stanno crescendo i seni e i miei muscoli diventano deboli». Alla fine la mia protagonista conquista se stessa e compie il miracolo dell’acqua.
La scena in cui la ragazza cuce la pancia, rappresenta il momento in cui lei accetta il suo corpo. Diventa consapevole della sua forza. In quel momento capisce anche la sofferenza della trasformazione, l’accetta e nasce una nuova forza in lei. All’inizio del film non è consapevole di quello che accade. Il mondo che la circonda non le è familiare. Successivamente scopre che il del suo ambiente è lo stesso che risiede nella sua vita. Quando accettiamo la nostra natura di donne accettiamo la nostra forza. Pensiamo di non aver forza, quando i nostri corpi nell’adolescenza iniziano a cambiare, è quello che ho provato io. Quando ho iniziato ad accettare la mia vita ho scoperto la mia forza interiore, quella che ho provato da piccola, e ho percepito la mia vita in crescita.
Anche il padre accetta la trasformazione. Non volevo mettere delle figure antagoniste nel film. La maggior parte del tempo siamo vittime delle circostanze.
In realtà gli uomini e soprattutto i padri possono essere fautori di una rottura rispetto alle circostanze culturali precostituite. Come il padre nel film, che decide di seguire il suo amore contro la tradizione.
All’inizio la ragazzina è la persona più debole del villaggio ma alla fine la sua forza prevale e salva tutti.

Come è arrivata alla inconsueta scelta estetica di fare un film del genere in bianco e nero?
Il bianco e nero è stata una scelta fatta di post-produzione, perché volevo che il pubblico si concentrasse sulla narrazione del film. Inoltre l’uso del bianco e nero mi ha aiutato ad amplificare il senso di aridità del luogo dove tutto si svolge.

Quando nasce il suo amore per il cinema? A quali riferimenti filmici guarda?
I primi che mi vengono in mente sono Il labirinto del fauno di Guillermo Del Toro e Re della terra selvaggia, un film del 2012 diretto da Benh Zeitlin.
Ho deciso di diventare una regista a dieci anni. Trasmettevano una serie televisiva nella TV siriana che mi colpì tantissimo. Era in arabo e la protagonista mi assomigliava. Successivamente ho iniziato a vedere film americani, e ho capito che sarei diventa una scrittrice e una regista, anche se di certo non sono diventata una regista per emulare gli autori del cinema americano. Ho sentito che mancava una voce: la mia mia. Mi sono chiesta «perché tutti hanno una voce»? E ho deciso di provare a far ascoltare anche la mia.

Cosa la preoccupa di più al momento della situazione del suo paese?
Sono ottimista. La situazione in Arabia Saudita sta lentamente migliorando. Il governo ha stabilito che le donne con più di 21 anni potranno ottenere un passaporto e viaggiare all’estero senza l’autorizzazione di un tutore o un accompagnatore di sesso maschile. Anche se piccolo, è comunque un passo in avanti verso l’emancipazione. Negli ultimi anni ci sono stati tanti piccoli cambiamenti. Un anno fa le donne non potevano guidare e ora ci sono donne che guidano dappertutto: le città sono più colorate, si sente la presenza femminile. Come nel mio film, dove la presenza di acqua rappresenta la presenza delle donne nella società, il miracolo della natura.

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