Dalla Cecoslovacchia di Tomàs Masaryk, un saggio che illumina il nostro presente
Saggi «The Making of a State», datato 1927, da Ishi Press
Proviamo a riavvolgere la storia del mondo all’indietro di cent’anni, per cogliere nella sua purezza il pensiero che scaturì allora, insieme alla speranza di una civiltà nuova, generata dalla «Grande Morte». Così Tomàs Masaryk – uno dei pochi «re-filosofi» della storia, allievo di Franz Brentano, e grande, paterno amico di Husserl, come lui moravo – chiamava la Grande Guerra. Su «The New Europe», il giornale che fondò a Londra durante la guerra, andava sviluppando l’idea di una «politica sub specie aeternitatis»: il solo riscatto possibile di quell’umanità di cui Karl Kraus aveva messo in tragedia «gli ultimi giorni». C’è, in questa location della politica nell’eternità, una certa zolfigna ironia krausiana, dopo «la Grande Morte». Eppure Masaryk non l’intendeva così.
Come allora? E perché mai il suo pensiero dovrebbe illuminare anche noi?
Il gesto di Yuval Green – giovane riservista israeliano che pur coltivando dubbi sulla liceità morale e civile di una società fondata sull’occupazione dei territori palestinesi, dopo il 7 ottobre si è messo a disposizione dell’esercito, dopo sei mesi, di cui 50 giorni passati all’interno della striscia di Gaza, ha firmato con 40 commilitoni una lettera che denuncia l’invasione di Rafah come inutile massacro di innocenti, non mirato a riportare a casa vivi gli ostaggi – è l’esatto esempio di quella renovatio mentis, di quel rinnovamento personale radicale che idealmente dev’essere cosa quasi quotidiana nella vita di ciascuno, perché una democrazia possa rifondarsi e vivere.
Questo è il nucleo del pensiero che si concretò nell’esperienza della neonata Repubblica Cecoslovacca, che Masaryk riuscì a fondare e di cui fu eletto Presidente, con l’appoggio di Woodrow Wilson, convinto dell’importanza di una repubblica indipendente nell’Europa Centrale, che facesse da argine al sempre rinascente pangermanesimo, e da ponte alla fraterna Russia, o meglio da calamita democratica al sol dell’avvenire.
«L’uomo è una creatura abitudinaria. Se desideriamo una democrazia realmente moderna e coerente dobbiamo rompere con le nostre vecchie abitudini politiche, e abiurare a ogni forma di violenza». È il pensiero più ricorrente del libro che scrisse durante la sua presidenza (uscì nel 1927): The Making of a State Memories and Observations 1914-1918. Masaryk era non soltanto riuscito a federare su un piede di assoluta parità Cechi e Slovacchi, pur tanto divisi prima e dopo il felice, breve intervallo dell’indipendenza cecoslovacca (1918-1938, data del Patto di Monaco e dell’annessione dei Sudeti); ma anche a integrare, pur con il massimo grado di autonomia, tutte le minoranze tedesche, magiare, russe.
E non per un colpo di fortuna, ma perché riuscì a rendere politicamente maggioritario nel suo parlamento il pensiero che la democrazia è la forma politica dell’organizzazione sociale moderna, un’innovazione anche morale perché il riconoscimento che tutti sono liberi e uguali e lo sviluppo delle istituzioni della solidarietà non può arrestarsi ai confini nazionali o etnici senza contraddizione. Con le parole di Masaryk: «la base etica della democrazia è l’umanità, e l’umanità è un programma internazionale».
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