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D’Alema, il Kosovo e la Cassazione

Uno dei passaggi più applauditi del discorso con cui Tomaso Montanari ha aperto la manifestazione di domenica scorsa al Teatro Brancaccio è stato quello in cui – ricordando come molti […]

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 22 giugno 2017

Uno dei passaggi più applauditi del discorso con cui Tomaso Montanari ha aperto la manifestazione di domenica scorsa al Teatro Brancaccio è stato quello in cui – ricordando come molti dei «mali» di oggi originino da politiche avviate nella prima legislatura dell’Ulivo – ha denunciato l’«illegittimità» della guerra contro la Serbia. Intervistato martedì da Daniela Preziosi su questo giornale, Massimo D’Alema ha così replicato: «Vorrei spiegare a Montanari che di questo fui accusato da un gruppo di giuristi. Poi la Cassazione emise una sentenza che archiviò tutto riconoscendo la piena legittimità del mio agire».
In effetti, la Cassazione ha avuto modo di occuparsi, sia pure in modo peculiare, della vicenda in due occasioni.

All’origine della prima c’è uno degli episodi più controversi del conflitto: il bombardamento della sede della televisione Rts (Radio televisione serba), compiuto nella notte del 23 aprile 1999 da aerei della Nato, dopo che la stessa Rts aveva rifiutato di cessare le trasmissioni di «propaganda» (questa l’accusa della Nato) a sostegno del regime di Milosevic. Dopo la conclusione delle ostilità, i parenti di alcune delle sedici vittime si rivolsero al Tribunale di Roma, per vedere riconosciuta l’illiceità dell’attacco alla Rts e ottenere, di conseguenza, il risarcimento dei danni patiti ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile. In opposizione, l’Avvocatura dello Stato negò che la magistratura italiana avesse competenza in materia, proponendo regolamento preventivo di giurisdizione e così chiamando in causa la Corte di Cassazione. Ne scaturì l’ordinanza n. 8157 del 5 giugno 2002 delle Sezioni Unite civili, nella quale venne dichiarato, così come richiesto dall’Avvocatura dello Stato, il «difetto di giurisdizione» della magistratura italiana. Più precisamente l’ordinanza stabilì che, rispetto agli atti che costituiscono manifestazione di una funzione politica, tra cui rientrano gli atti di guerra, «nessun giudice ha potere di sindacato circa il modo in cui la funzione è stata esercitata». In definitiva: la Cassazione non svolse alcun esame di merito della controversia, non addivenendo al riconoscimento né della legittimità né della illegittimità della guerra o di un suo episodio. Molto più semplicemente, si fermò prima: all’affermazione dell’incompetenza della magistratura a pronunciarsi.

La seconda vicenda nacque invece dalla denuncia che alcuni cittadini, su iniziativa di parlamentari di Rifondazione comunista, presentarono nei confronti di D’Alema per i delitti di attentato alla Costituzione, usurpazione di potere politico o militare e strage, delitti che sarebbero stati commessi in conseguenza della partecipazione dell’Italia alla guerra. La denuncia venne assegnata per competenza al Collegio per i reati ministeriali presso il Tribunale di Roma e si concluse, il 26 ottobre 1999, con l’archiviazione del procedimento: sostanzialmente, perché i giudici non ravvisarono anomalie rispetto a quanto sancito dall’articolo 78 della Costituzione sulla deliberazione dello stato di guerra. I ricorrenti si rivolsero allora alla Cassazione chiedendo l’annullamento del decreto di archiviazione in virtù di un vizio procedurale: non essere stati informati della richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero e, per l’effetto, non aver potuto adeguatamente contestare in contraddittorio tale richiesta. Con la sentenza n. 36274 dell’8 ottobre 2001 la VI sezione penale della Suprema Corte statuì l’infondatezza del ricorso, negando che i ricorrenti potessero considerarsi «persone offese dal reato», essendo invece al più semplici «danneggiati dal reato», e dunque riconoscendo la correttezza della decisione del Tribunale di Roma di non dare loro avviso della richiesta di archiviazione. Anche in questo caso, dunque, la Cassazione non ebbe modo di esprimersi né sulla legittimità né sulla illegittimità della guerra, ma si limitò a intervenire sui profili procedurali della vicenda svoltasi nel grado di merito.

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