Dal Novecento russo, visioni lancinanti di felicità presagita, a linee e colori
Nell’ultimo quadro del Mistero buffo di Majakovskij, composto a caldo nel 1918 (e subito messo in scena da Mejerchol’d, con le scenografie di Malevich) per celebrare il primo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, gli «impuri», cioè i proletari, approdano dopo un diluvio universale alla terra promessa della società comunista. Davanti a loro si para una città ultramoderna, con palazzi e fabbriche di vetro, trasporti più veloci del vento, vetrine colme di merci esentate da moleste etichette con il prezzo. Qui, nella solare Comune, nell’Eden dei beni comuni, il lavoratore potrà finalmente godere i frutti della propria fatica; qui la felicità, non più chimerica, è a portata della sua mano callosa. Sipario.
Questa scena conclusiva «costituisce il cuore poetico e insieme concettuale» del secondo volume, intitolato Sogni, di una suggestiva antologia della prosa russa del primo Novecento, ideata e curata da Mario Caramitti (Atmosphere, p. 371, € 18,00).
Fino agli anni ’30
Se il precedente volume, Fuoco, aveva proposto un mosaico di scritti incuneati negli anni tellurici della rivoluzione e della guerra civile, questa volta la selezione e il montaggio dei testi riflettono «la tensione utopica e l’intensità espressiva dell’anima russa negli anni in cui è esposta alle più estreme sollecitazioni». Filo conduttore del volume sono dunque le radicali aspirazioni etiche, la concitata ricerca di una redenzione collettiva o individuale (vero demone, questo, dell’intera letteratura russa), le visioni lancinanti di una felicità presagita, o almeno immaginata, durante il colossale smottamento storico provocato dalla rivoluzione d’Ottobre.
Anziché privilegiare l’ordine cronologico, contentandosi di un andamento lineare e cumulativo, Sogni traccia piuttosto cerchi concentrici intorno a un nucleo tematico, anzi poetico: i versi del Mistero buffo di Majakovskij, per l’appunto. Mentre Fuoco raccoglieva per lo più testi scritti durante gli anni Venti, qui l’arco temporale preso di mira è molto più ampio: dall’inizio del Novecento fino agli anni Trenta. D’altronde, nulla si capirebbe del prodigio creativo del decennio successivo alla rivoluzione, se non si tenesse conto delle sue effettive radici, vale a dire della stagione chiamata abitualmente l’«età d’argento», in cui esordiscono a getto continuo tutte le avanguardie artistiche e letterarie russe. Le visioni mistiche e le tensioni escatologiche del tardo simbolismo russo (documentate dalla prosa di Fëdor Sologub, Andrej Belyj, Aleksej Remizov) non solo non stridono con la galleria di allucinazioni utopiche che costellano l’epopea dei soviet, ma ne sono l’incunabolo e la matrice. Un trascurato capolavoro in prosa di Chlebnikov, «Ka» (1915), tradotto qui per la prima volta in italiano, impegnandosi nella creazione di mondi non euclidei, rappresenta forse il più evidente anello di congiunzione tra «età d’argento» e tempi nuovi.
L’Ottobre getta olio su un fuoco che già divampava nella spregiudicata sperimentazione formale avviata negli anni Dieci. Scrive Caramitti nella sua Postfazione: «Per un sorprendente concorso di circostanze le avanguardie storiche e la rivoluzione insistono sugli stessi piani funzionali di ribaltamento integrale del canone antecedente e introduzione di forme di assoluta novità». La mentalità collettiva che la rivoluzione inaugura non fa che portare al diapason la sensibilità per il possibile e il mai-visto cresciuta a dismisura negli ultimi anni dell’autocrazia zarista.
Per quanti hanno dimestichezza con l’utopia, «l’illusione è un fine, in sé autosufficiente». Accade quindi che una vista imperfetta possa rivelarsi un dono, anziché un limite. Caramitti individua questa virtuosa imperfezione in tre autori molto diversi, istituendo così una intersezione inattesa, anzi un cortocircuito. Nell’autobiografia dell’«indefesso mistificatore» Aleksej Remizov, Con gli occhi rasati, la cui redazione cominciò durante l’emigrazione negli anni Trenta, l’afflato visionario fa tutt’uno con una forte miopia risalente all’infanzia. In un bozzetto di Isaac Babel’, «Linea e colore» (1923), il personaggio di Kerenskij, insieme storico e fantastico, rifiuta di indossare gli occhiali, preferendo serbare una conoscenza della realtà dai contorni incerti: «A che mi servono le linee quando ho i colori?». Infine, in «Un’illusione ottica» (1934), tratta dai Casi di Daniil Charms, il protagonista non crede a ciò che vede quando indossa gli occhiali, ritenendo che proprio quello spettacolo finalmente attendibile sia un perfido inganno ottico.
Emblema del rapporto privilegiato con l’idea a scapito della realtà, e del rifiuto del fatale quesito sull’applicabilità pratica delle teorie forgiate nelle officine artistiche, è il celeberrimo progetto del monumento alla Terza Internazionale di Tatlin. Uno scritto del teorico dell’arte Nikolaj Punin caldeggia la costruzione di una bizzarra torre inclinata, con piani sferici roteanti a velocità diverse. E poco importa se il progetto esclude qualsivoglia realizzazione: anche per questo la torre inclinata merita di essere considerata «l’edificio iconico per eccellenza della Rivoluzione russa». Allo slancio verticale della futuristica torre di Tatlin fa da contrappunto il romanzo di Aleksandr Chajanov, Viaggio di mio fratello Aleksej nel paese dell’utopia contadina (1920), nel quale si vagheggia un futuro in cui le città sono smantellate a favore di una estensione orizzontale verso un’interminabile campagna.
Autori ritradotti
Un’altra pietra miliare dell’antologia è il saggio della precoce femminista Aleksandra Kollontaj, Largo all’amore alato! (1923), che discetta con puntiglio e levità sulle relazioni sessuali nella società comunista. La sua è un’apologia del sentimento, al quale è affidato il governo delle pulsioni fisiche, come pure la lotta contro la disparità nel rapporto di coppia e il culto asfittico della famiglia. L’amore campeggia anche in un testo di Evgenij Zamjatin, «Di ciò che più conta», e soprattutto è il motore immobile dello struggente e insolitamente realistico racconto lungo di Andrej Platonov «Il fiume Potudan’» (1936), che ha per sfondo l’impietosa miseria che fece seguito alla guerra civile.
Del 1929 è un altro racconto di Platonov, titolato «Cittadino dello Stato», in cui l’istanza di salvezza è delegata per intero all’onnipotente entità da cui tutto pare dipendere: «nello Stato si conserva in maniera intangibile la vita delle persone viventi e trapassate». Proprio qui si avverte una svolta irreversibile: l’attesa utopistica recede dinanzi alla affermazione distopica dello Stato totalitario.
Caramitti ritraduce per intero «L’infanzia di Luvers» (1918) di Boris Pasternak e affida a Valentina Parisi l’altra gemma del volume, «Le flagellanti» di Marina Cvetaeva, un dolente e tuttavia luminoso esercizio di memoria degli anni Trenta. Ma in questa antologia tutte le traduzioni hanno comportato un assiduo lavoro di interpretazione e di ricostruzione storico-sociale. Le firmano studiosi che costituiscono una sorta di comunità elettiva, intenta a perlustrare lo straordinario «disordine sotto il cielo» imbandito dalla letteratura russa nei primi decenni del XX secolo.
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