Dal morbillo al Covid-19: «Cocktail di epidemie, Argentina senza tregua»
America latina Intervista all’ex ministro della sanità Mario Rovere: «La capacità di reazione è dinamica, abbiamo otto nuovi ospedali pronti. I casi appartengono a una fascia alta della società, il paziente zero è arrivato in business class. La prima assistenza oggi è il sistema privato, che però non si coordina con il pubblico»
America latina Intervista all’ex ministro della sanità Mario Rovere: «La capacità di reazione è dinamica, abbiamo otto nuovi ospedali pronti. I casi appartengono a una fascia alta della società, il paziente zero è arrivato in business class. La prima assistenza oggi è il sistema privato, che però non si coordina con il pubblico»
L’Argentina ha confermato 97 casi positivi al Covid-19 e tre morti dal 3 marzo. Il governo ha decretato la chiusura delle scuole fino al 31 marzo e si appresta a paralizzare il paese in vista del ponte per il Giorno della Memoria di martedì prossimo. Per la prima volta in 44 anni non ci saranno manifestazioni a Buenos Aires il 24 marzo, anniversario del colpo di stato del 1976.
Una situazione fuori dal comune che però, a differenza di altri paesi , aggrava una già preoccupante crisi sanitaria. Nel paese sudamericano i casi di tubercolosi superano i 10mila l’anno, quelli di sifilide i 1.200. Nel 2019 è riapparso il morbillo, che ha fatto la sua prima vittima dal 1991.
Secondo Mario Rovere, ex ministro alla sanità e rinomato specialista in gestione sanitaria a livello latinoamericano, l’Argentina ha imboccato strada giusta. «Le prime misure sembravano sproporzionate, avevamo solo 17 casi confermati. Ma l’evoluzione del tasso di duplicazione ci mostra che l’espansione è più lenta rispetto ai paesi vicini», ci spiega.
In Argentina secondo dati ufficiali ci sono 221mila posti letto, di cui circa 10.100 in terapia intensiva. Sono sufficienti per affrontare la pandemia?
Se calcoliamo la quantità di casi che dovremmo avere per saturare il sistema, in base ai posti letto disponibili ora in terapia intensiva, dovremmo moltiplicare per cento i 97 casi che abbiamo registrato finora. Ovviamente non è da escludere, l’esperienza europea lo dimostra. Ma la capacità di risposta argentina ha dimostrato di essere dinamica. Abbiamo otto nuovi ospedali quasi finiti da inaugurare, ad esempio.
L’Argentina però sta già affrontando gravi epidemie.
Da dicembre a questa parte non abbiamo avuto tregua: un focolaio di morbillo e uno di dengue e adesso il coronavirus. Il rischio è che l’impatto mediatico di quest’ultimo nasconda il resto. Abbiamo un cocktail epidemiologico preoccupante. Per ora, però, i casi di coronavirus che abbiamo sono tutti importati dall’estero e appartengono a una fascia alta della società. Il paziente zero in Argentina è arrivato in business class. Quindi il primo fronte di assistenza ora è il sistema privato, che però non si coordina con quello pubblico.
Come state valutando l’esperienza mondiale di fronte alla pandemia?
Stiamo monitorando quotidianamente ciò che succede in Europa. All’Argentina il modello cinese serve solo fino a un certo punto. Il modello europeo è molto più funzionale viste le somiglianze delle strutture demografiche, specialmente nei grandi centri urbani. L’insegnamento che ci lascia oggi l’Europa è che senza una sanità pubblica forte non c’è modo di gestire una pandemia come questa.
Come valuta le reazioni degli altri paesi sudamericani?
In America Latina abbiamo due casi molto preoccupanti. Quello della Colombia, che negli ultimi 15 anni ha distrutto il suo sistema di sanità pubblica e non ha gli strumenti per affrontare ciò che sta accadendo. È una situazione simile a quella degli Usa, che vogliono frenare con il sistema privato un qualcosa che i privati non sanno affrontare. E l’altro caso è quello del Brasile. L’unica cosa che manca oggi al Sistema Unico Sanitario brasiliano, un vero e proprio esempio in America latina, per arginare la pandemia è convincere il presidente. Negli ultimi anni sono state eliminate iniziative molto importanti a livello sudamericano, come l’Unasur Salud o l’Istituto sudamericano di Governo sanitario, smantellato con l’avvento dei conservatori.
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