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Dai Cpr si rimpatriano quasi solo migranti tunisini

Dai Cpr si rimpatriano quasi solo migranti tunisiniL'interno del Cpr di Ponte Galeria, alle porte di Roma – Stefano Montesi

Trattenuti Lo studio di ActionAid e dipartimento di Scienze politiche dell’università di Bari. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri

Pubblicato circa un anno faEdizione del 20 ottobre 2023

«Gli unici ad avere una significativa probabilità di essere rimpatriati sono gli uomini di nazionalità tunisina, che nel periodo 2018-2021 rappresentano il 50% degli uomini in ingresso in un Cpr e quasi il 70% dei rimpatri effettivamente eseguiti. Le altre nazionalità hanno probabilità maggiori di rimanere in detenzione fino a decorrenza dei termini di trattenimento a causa della scarsa probabilità di essere rimpatriati o rilasciati per provvedimento dell’autorità giudiziaria», si legge nel rapporto Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri. Lo studio sui Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) italiani è stato pubblicato martedì da Actionaid, in collaborazione con il dipartimento di Scienze politiche dell’università di Bari, ed esamina i dati su queste strutture detentive nel periodo che va dal 2014 al 2021.

L’analisi mostra come i Cpr si siano progressivamente trasformati in uno strumento per l’esecuzione dei rimpatri accelerati dei cittadini di nazionalità tunisina. Questo, oltre a sollevare diversi interrogativi circa l’effettività dell’accesso al diritto d’asilo e la qualità della tutela giurisdizionale, mette in dubbio il rapporto tra tempi di permanenza nei Cpr, efficacia dei rimpatri e quantità di persone effettivamente riportate nel paese d’origine (dato che i tunisini rappresentano solo l’8% delle persone sbarcate in Italia nel 2023). «L’investimento nei Cpr non ha portato ai risultati annunciati, al contrario la percentuale di persone rimpatriate rispetto al numero degli ingressi è in chiara decrescita: dal 55,1% del periodo 2014-2017 si passa al 48,3% nel 2018-2021. A ciò deve aggiungersi che il calo nella percentuale dei rimpatri eseguiti si registra in un periodo in cui aumentano i tempi di permanenza medi. Ciò dimostra che all’aumentare dei tempi di detenzione non corrisponde una maggiore probabilità di rimpatriare», si legge ancora nel rapporto.

Alla luce dello studio è quindi di dubbia efficacia il decreto Immigrazione di settembre scorso che aumenta la permanenza massima nei Cpr da 3 a 18 mesi. Inoltre sembra esistere una correlazione diretta tra il prolungamento dei tempi di trattenimento e la crescita delle spese per il mantenimento delle strutture detentive. Secondo ActionAid «nel 2018 a 27 giorni di permanenza media in un Cpr corrispondono 1,2 milioni di euro per costi di manutenzione straordinaria; nel 2020, a fronte di 41 giorni di permanenza media i costi erano balzati a 4,1 milioni». Costi che si sommano a quelli medi di ciascuna struttura: un milione e mezzo l’anno, circa 21 mila euro a posto.

Un altro elemento interessante che emerge nel rapporto è quello relativo all’analisi dei dati dei singoli Cpr, dai quali si può trarre una diversificazione di fondo nel sistema detentivo per stranieri: «da un lato i centri di frontiera che a tempi di permanenza più corti della media associano un’elevata incidenza dei rimpatri eseguiti (Caltanissetta, Trapani). Dall’altro i Cpr che funzionano come propaggini del carcere, caratterizzate da tempi di permanenza piuttosto lunghi e bassa incidenza di rimpatri (Torino e Brindisi)».

La specializzazione delle strutture sembra corrispondere a un disegno di progressiva ibridazione del sistema detentivo con quello di prima accoglienza per richiedenti asilo destinato alla gestione delle procedure d’asilo accelerate e di rimpatrio dalle «zone di frontiera» (in questo senso il nuovo centro di Modica, con una parte hotspot e una destinata al trattenimento, potrebbe rappresentare un prototipo). Il che rischia di portare a una moltiplicazione di strutture detentive non censite, situate in luoghi non idonei e non sulle frontiere geografiche, all’interno di aree militarizzate lontane dagli occhi della società civile. «Il pericolo – conclude il rapporto – è quello di una ulteriore riduzione della trasparenza e dell’accessibilità di luoghi dove, è bene ricordarlo, le persone vengono private della libertà personale senza aver violato la legge penale».

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