«Gli unici ad avere una significativa probabilità di essere rimpatriati sono gli uomini di nazionalità tunisina, che nel periodo 2018-2021 rappresentano il 50% degli uomini in ingresso in un Cpr e quasi il 70% dei rimpatri effettivamente eseguiti. Le altre nazionalità hanno probabilità maggiori di rimanere in detenzione fino a decorrenza dei termini di trattenimento a causa della scarsa probabilità di essere rimpatriati o rilasciati per provvedimento dell’autorità giudiziaria», si legge nel rapporto Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri. Lo studio sui Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) italiani è stato pubblicato martedì da Actionaid, in collaborazione con il dipartimento di Scienze politiche dell’università di Bari, ed esamina i dati su queste strutture detentive nel periodo che va dal 2014 al 2021.

L’analisi mostra come i Cpr si siano progressivamente trasformati in uno strumento per l’esecuzione dei rimpatri accelerati dei cittadini di nazionalità tunisina. Questo, oltre a sollevare diversi interrogativi circa l’effettività dell’accesso al diritto d’asilo e la qualità della tutela giurisdizionale, mette in dubbio il rapporto tra tempi di permanenza nei Cpr, efficacia dei rimpatri e quantità di persone effettivamente riportate nel paese d’origine (dato che i tunisini rappresentano solo l’8% delle persone sbarcate in Italia nel 2023). «L’investimento nei Cpr non ha portato ai risultati annunciati, al contrario la percentuale di persone rimpatriate rispetto al numero degli ingressi è in chiara decrescita: dal 55,1% del periodo 2014-2017 si passa al 48,3% nel 2018-2021. A ciò deve aggiungersi che il calo nella percentuale dei rimpatri eseguiti si registra in un periodo in cui aumentano i tempi di permanenza medi. Ciò dimostra che all’aumentare dei tempi di detenzione non corrisponde una maggiore probabilità di rimpatriare», si legge ancora nel rapporto.

Alla luce dello studio è quindi di dubbia efficacia il decreto Immigrazione di settembre scorso che aumenta la permanenza massima nei Cpr da 3 a 18 mesi. Inoltre sembra esistere una correlazione diretta tra il prolungamento dei tempi di trattenimento e la crescita delle spese per il mantenimento delle strutture detentive. Secondo ActionAid «nel 2018 a 27 giorni di permanenza media in un Cpr corrispondono 1,2 milioni di euro per costi di manutenzione straordinaria; nel 2020, a fronte di 41 giorni di permanenza media i costi erano balzati a 4,1 milioni». Costi che si sommano a quelli medi di ciascuna struttura: un milione e mezzo l’anno, circa 21 mila euro a posto.

Un altro elemento interessante che emerge nel rapporto è quello relativo all’analisi dei dati dei singoli Cpr, dai quali si può trarre una diversificazione di fondo nel sistema detentivo per stranieri: «da un lato i centri di frontiera che a tempi di permanenza più corti della media associano un’elevata incidenza dei rimpatri eseguiti (Caltanissetta, Trapani). Dall’altro i Cpr che funzionano come propaggini del carcere, caratterizzate da tempi di permanenza piuttosto lunghi e bassa incidenza di rimpatri (Torino e Brindisi)».

La specializzazione delle strutture sembra corrispondere a un disegno di progressiva ibridazione del sistema detentivo con quello di prima accoglienza per richiedenti asilo destinato alla gestione delle procedure d’asilo accelerate e di rimpatrio dalle «zone di frontiera» (in questo senso il nuovo centro di Modica, con una parte hotspot e una destinata al trattenimento, potrebbe rappresentare un prototipo). Il che rischia di portare a una moltiplicazione di strutture detentive non censite, situate in luoghi non idonei e non sulle frontiere geografiche, all’interno di aree militarizzate lontane dagli occhi della società civile. «Il pericolo – conclude il rapporto – è quello di una ulteriore riduzione della trasparenza e dell’accessibilità di luoghi dove, è bene ricordarlo, le persone vengono private della libertà personale senza aver violato la legge penale».