In una continua invenzione di cosa possa essere il cinema, ed il generoso performare la realtà, sia domestica che pubblica, con un fare e disfare il personale con il politico, tre brillanti filmmakers/artiste/i si sono succedute in mostre personali durante l’estate berlinese. Margaret Raspè alla Haus am Waldsee, Ulysses Jenkins alla Julia Stoschek Foundation e Dagie Bründert al Silent Green.

Raspè comincia agli albori degli anni 70, costruisce un dispositivo per montare la cinepresa Super 8 sulla sua nuca e poter girare frammenti di vita, mentre lava le stoviglie in Alle Tage wieder – let them swing, mentre cucina in Oh Tod, wie nahrhaft bist du, mentre mette a posto casa, mentre monta la panna per fare il burro in Der Sadist schlägt das eindeutig Unschuldige tutti girato tra il 1971 ed il ‘74. Sono gli anni di «Wages against housework», il collettivo femminista statunitense istigato tra le altre dalla marxista italiana Silvia Federici che mette al centro di questioni femminili e femministe l’ambiente domestico.

L’elmetto inventato da Raspè è la traduzione immediata di quello che in quegli anni diventa «il personale è politico», ed anche la condivisione dello sguardo di un processo di automatizzazione come il lavoro domestico, con il pubblico. Madre single di tre figlie Margaret Raspè dagli inizi ospitò a casa sua amici e membri della comunità artistica Fluxus di Berlino e di quella azionista Viennese, tra cui Peter Kubelka e Joan Jonas, con conseguenti happening e proiezioni in casa e nel suo giardino.

La mostra curata da Anna Gritz si intitola Automatik a sottolineare ricorrenti procedimenti dell’artista che negli anni 80 riguardano anche il disegno e la pittura insieme al video come in Gelb, Rot und Blau Entgegen; li accomuna la ricerca di altre forme di produzione di conoscenza e la consapevolezza che l’ambiente quotidiano, e la sua sostenibilità sono impressi nei corpi, negli esseri e negli oggetti che ci circondano. Come la potente quanto evanescente Kondensation del 1984 e ripresa nella personale, in cui tre bollitori sbuffano acquarello rosso su grandi tele bianche.

Ulysses Jenkins ha al centro del suo lavoro la critica alla cultura iconografica che informa la rappresentazione afro americana nei mass media. Da cinque decadi il lavoro di Jenkins, spesso realizzato in collaborazione con altri artisti ed in gruppo, intreccia incessantemente il cinema, la performance, la musica, la contro informazione, il cinema espanso e la critica istituzionale con la black experience. Without your interpretation è la prima grande mostra personale internazionale dedicata all’artista dall’ICA di Philadelphia con la curatela di Erin Christovale e Meg Onli che per tre anni la hanno preparata scavando negli archivi dell’artista e nelle tante ore di riprese accumulate. L’uso della performance nel video e viceversa ad inizio anni 70, come degli effetti del software Z-Box GRAphics (Z-GRASS) e dell’Amiga toaster dalla fine di questa decade in poi, rendono il lavoro di Ulysses Jenkins precursore dei suoi tempi nell’essere incentrati su questioni di razza, rappresentazione ed auto rappresentazione nei mass media.

In Mass of Images del 1978 l’artista confronta in una performance video immagini cinematografiche con afro americani e come queste, spesso frutto di stereotipi e razzismo strutturale, rendano quasi impossibile la fuga dal loro riverbero nella vita quotidiana. È da ricordare che è di questo periodo l’iconico film Sweet Sweetback’s Badass Song di Melvin van Peebles che ribalta sottosopra queste assodate ed obsolete rappresentazioni. Di base in California, Jenkins fonda diversi collettivi, il Video Venice News, Electronic cafè e la sua produzione Othervisions, le collaborazioni con gli artisti David Hammons, Kerry James Marshall, Senga Nengudi sono ricorrenti. Del 1981 Televiews and Cable Radio è concepito durante i suoi anni d’insegnamento alla University of California di San Diego, come una serie di conferenze e performance della durata di un giorno che esplorassero «modalità alternative di espressione attraverso i futuri media elettronici contemporanei».

Jenkins organizzò con i suoi studenti l’attivazione di due luoghi del campus interconnessi tramite la trasmissione di micro onde digitali, consentendone l’interazione simultanea con il pubblico. Il programma prevedeva lezioni e performance di artisti dei media e della tecnologia, tra cui il guru del cinema espanso Gene Youngblood e gli stessi studenti di Jenkins. Nella metà degli anni 80 Jenkins firma la Video Griot Trilogy in cui le tre opere proseguono la sua esplorazione nel multiculturalismo e nella condizione interconnessa dei popoli storicamente oppressi. «Doggerel», una parola che troviamo spesso nei titoli di alcune opere e nella sua autobiografia, è un termine usato da Jenkins per comunicare un ambito d’azione che sia lui che molti suoi collaboratori e collaboratrici hanno forgiato volenti e non per decenni, è quello che si potrebbe definire di contorno o di lato al radar degli ambiti centrali e mainstream della scena artistica, occupati nella maggior parte da soggetti bianchi eterosessuali. Doggerel è stato anche per l’artista un dispositivo mediatico per inceppare con costanza le macchine del consenso.

Dagie Brundert il cinema lo cucina, sviluppa le pellicole Super 8 e 16mm in pozioni messe a punto con i resti della cena, o della spesa, o di ciò che trova nei posti dove è invitata a sperimentare dal vivo. Un approccio organico ed ecosostenibile ad un mezzo che di per sè è basato sulla chimica artificiale ed è altamente inquinante. All’entrata della sua mostra «Kiss the moment» curata dal Film Feld Forschung troviamo Barbie dolls collapse un delizioso Super 8 del 1988, in cui delle barbie cascano a ripetizione. Giriamo l’angolo e troviamo Dagie intenta ad appendere alcune pellicole Super 8 appena sviluppate con ciò che vediamo disposto lungo un tavolo, vino rosso, vitamina c, avocado, caffè, soda in polvere.

Trovare l’artista ad una propria mostra è già un bel segno di vilipendio alla sacralità dell’involucro e vederla disponibile a diffondere la preziosa conoscenza su questi processi di sviluppo ancora più raro. Brundert gira Super 8 dalla fine degli anni 80 riprendendo ciò che la circonda, se stessa, i suoi amici, le vacanze e la sua famiglia nella migliore tradizione dell’agilità del mezzo, dei filmini amatoriali e della cultura punk del d.i.y. (Do it yourself-Fai da te). Abbiamo incontrato Dagie per una conversazione nel quartiere dove tutte e due viviamo.

È stata una bellissima sorpresa trovarti in mostra intenta a sviluppare e rendere accessibile le pellicole.

Certamente, la mia presenza è importante per il mio lavoro che non è solo mettere in mostra e proiettare ma anche rendere vivo il mezzo e il modo con cui lavoro. È un atto performativo che sottolinea l’importanza dell’accesso alle mie pozioni b biologiche per lo sviluppo dei Super 8.

Questa modalità dispone il terreno per relazioni e un senso di scambio e di comunità, anche se provvisorio e limitato. L’accessibilità e la condivisione dei ‘segreti del mestiere’ è un atto politico di commoning, di messa in comune.
Sì mi piace la parola comunità, per me è essenziale avere un riscontro dagli spettatori, scambiare impressioni e vedere le persone uscire dalla mia mostra spesso più contente di come siano entrate. Tenere laboratori e workshops è una parte integrante del mio lavoro e del modo in cui mi relaziono quando riprendo. Insegnare alle persone che possano gestire direttamente il fare cinema, attraverso un piccolo mezzo come il Super 8 e che possano anche sviluppare le pellicole con i resti del pasto, metterci le mani e poi vederle è oltremodo un piacere. Trasmettere questo capacità analogica in un mondo pieno di immagini digitali è un atto per me fondamentale.

La cosa che mi è piaciuta molto della tua mostra che è piena di gioia. Tutti i dispositivi che proiettano e mostrano le immagini in movimento trasmettono questa gioia pervasiva ed un costante giocare con il mezzo. Una sorta di profonda disciplina a non mollare il proprio senso della meraviglia, che salva il mondo.
Non ho alcuna disciplina ma mi piace la domanda, mi piace l’idea di gioia. Questi nostri tempi hanno bisogno di gioia, a volte i miei filmini narrano uno scherzo o una piccola bellezza, una rivelazione in un atto quotidiano. Di solito vedo la parte positiva in qualunque cosa mi capiti a tiro. Anni fa i miei film non erano accettati negli ambiti predisposti perché troppo gioiosi, visti forse come superficiali? Tante persone mi dicevano che se volevo essere presa sul serio non sarei dovuta essere così leggera e gioiosa. Te lo immagini? Adesso è arrivato il tempo per la mia gioia, per il mio sviluppo sostenibile delle pellicole e la diffusione di questa pratica.

Credo che questo momento storico sia maturo per visioni, letture e pratiche femministe, caotiche, anarchice, anti patriarcali che finalmente rendono visibile il lavoro di molte artiste donne, queer e trans che prima restava ai margini o era invisibile grazie a gerarchie critiche concettuali ormai diventate obsolete. Ed anche questo lo celebriamo con gioia!
Credo tu abbia ragione, grazie a letture femministe si sono aperti degli spazi sia reali che concettuali per accettare gioia nell’arte e nel fare cinema.

Quindi la domanda diventa come facciamo a rendere stabile questo nuovo assetto, in senso materialista ed economico, come possiamo contare di viverci, finalmente, del nostro lavoro fuori da schemi dominanti.
Dare una spallata al patriarcato capitalista! Siamo metà del mondo dobbiamo prenderci gli spazi e le risorse. Non so, come fare praticamente.

Un’altra attitudine importante del tuo lavoro è il d.i.y., il fai-da-te, che nonostante tu sia una filmmaker di solida esperienza continui a praticare. È un tipo d’indipendenza e sostenibilità degli impegni molto importante da mantenere.
L’indipendenza è fondante per me, nel mio lavoro come nella vita, essere indipendente da produzioni, fondi, sostegni istituzionali, Io sono una bolla ‘I’m a bubble’ ho sempre lavorato da sola a prescindere dalla disponibilità economica, credo sia questo che mi ha fatto indagare e scoprire la possibilità di sviluppare le mie pellicole. Lavoro con pellicole scadute quando non posso comprarne di nuove. Non c’è bisogno di avere tecnici o collaboratori se non puoi pagarli, se ti serve un attrice chiedi ad un amica, se non hai le luci gira con la luce naturale.

Certo è la storia del cinema indipendente e sperimentale da Cassavetes a Derek a Mekas, inventare le risorse e dare forma ad un cinema che si riesce a fare nonostante limiti e restrizioni. Lavorando lungo quei limiti semmai. Questa è anche una capacità di fare comunità, come filmmakers indipendenti e/o sperimentali sappiamo coagulare persone e risorse, relazioni e tempistiche, desideri ed aspettative. Un set per quanto piccolo sia è una comunità temporanea con tutte le sue idiosincrasie.

Comunità come economia di scambi, basata sulla condivisione, come le mie ricette che condivido e diffondo, sono accessibili nel mio sito https://yumyumsoups.wordpress.com/. Come essere un pozzo di risorse vivente da condividere, non ci si arricchisce con i soldi ma con le relazioni.

È anche una tradizione berlinese, un retaggio positivo dell’Est anti capitalista, per cui tante cose ancora si riparano invece che comprarle nuove, o altre si condividono o ci si scambia manualità per aiutare a risolvere problemi domestici.
Berlino è sempre stata piuttosto povera e questo ci ha salvato dall’iper consumismo e dall’iper sfruttamento. Anche adesso che è stata gentrificata e non è così punk come in passato ha preservato un buon grado di libertà e la varietà di persone e l’accessibilità culturale in città rimangono uniche.