Una delle parole che da vent’anni domina il dibattito pubblico è «populismo», che rischia di diventare un contenitore vuoto, ovvero, come sosteneva Francis Fukuyama, l’etichetta che le élite mettono alle politiche che a loro non piacciono.

Peraltro, non è certo sufficiente denunciare la fumosità di questa categoria per sbarazzarsene. Come ha osservato Loris Zanatta, uno dei maggiori studiosi del populismo, per quanto soprattutto all’interno del discorso politologico si continui a sostenere che essa sarebbe una categoria non esplicativa, tale categoria si rivela in realtà ben più resistente di quanto vorrebbero i suoi critici.
In termini generali con populismo si intende oggi perlopiù l’esaltazione della sovranità popolare contrapposta in termini antagonistici alla forma della democrazia rappresentativa di tipo liberale. Nel populismo, il popolo viene richiamato come fonte diretta di legittimazione contro quella che si ritiene essere una “casta”, la quale tenderebbe ad allontanarsi sempre più da quella realtà dalla quale pure riceve legittimazione.

In questo senso il populismo sarebbe un movimento che si rivolge criticamente contro tutte le élite che pretendono una qualche funzione di orientamento, nella convinzione che tale funzione non abbia in realtà altro fine che la salvaguardia del ruolo privilegiato del quale quelle élite godono. Queste caratteristiche generali si trovano oggi particolarmente accentuate dalla società digitale in particolare dall’influenza nella vita pubblica dei social network, i quali hanno assunto un ruolo sempre più decisivo nella ‘costruzione’ dell’opinione pubblica.

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L’opinione pubblica è diventata, come sosteneva Alessandro Dal Lago, opinione digitale, ovvero un’opinione pubblica che nasce e si sviluppa secondo strategie totalmente diverse da quelle che hanno caratterizzato l’opinione pubblica novecentesca. Se nell’era predigitale l’opinione pubblica era formata essenzialmente dagli organi di stampa e dalle televisioni e dunque dalle élite che guidavano questi produttori di opinioni, oggi quel ruolo è perlopiù svolto dai social network, ovvero da strutture commerciali raffinatissime, algoritmicamente organizzate, che tendono a sfruttare la convinzione degli utenti di essere ciascuno un opinion leader.

Rispetto a questo quadro, che è quello che ha dominato l’attenzione negli ultimi anni, sembra ora essersi fatta strada una nuova declinazione del populismo, anch’essa per molti aspetti connessa con la comunicazione digitale e che si può chiamare, con un ossimoro solo apparente, antipopulismo populista. Se uno dei caratteri fondanti di qualsiasi populismo è infatti la tendenza a una divisione del campo sociale e politico in termini di amici, i quali rappresentano il bene, e nemici, che incarnano il male, l’antipopulismo populista si muove all’interno della medesima logica: da una parte ci sono i cattivi, ovvero i nemici delle istituzioni, gli incompetenti, i complottisti, dall’altra coloro che invece hanno senso delle istituzioni, i competenti, coloro che di fronte a qualsiasi istanza critica di carattere sistemico tendono a irriderla riparandosi dietro un’idea altrettanto vaga di complessità.

In questo senso populismo e antipopulismo si reggono sullo stesso dispositivo logico, sulle medesime forme comunicative e si giustificano reciprocamente, nel senso che l’uno riceve il suo senso semplicemente dalla presenza dell’altro. Populismo e antipopulismo giocano lo stesso tipo di gioco su terreni apparentemente contrapposti, condividono il medesimo ordine discorsivo, trovano ciascuno il proprio principio di identità nell’altro.

Forse il primo esponente dell’antipopulismo populista in Italia è stato Matteo Renzi, la cui retorica si è da sempre retta su parole d’ordine che implicano la costruzione di un nemico che assume le forme di una categoria, più che di un progetto politico determinato: la “rottamazione”, la “buona scuola”, “merito di cittadinanza contro reddito di cittadinanza”, “noi seri loro populisti”.

Oggi l’esponente più emblematico dell’antipopulismo populista è presumibilmente Carlo Calenda. La sua opposizione ai concetti di destra e sinistra (“né destra, né sinistra, io risolvo problemi”) è un tipico elemento populistico che lo accomuna agli odiati Cinquestelle. Ma al di là di Renzi o Calenda, l’antipopulismo populistico è in realtà una postura che attraversa in modo profondo anche il mondo dei media: basta seguire alcuni profili digitali di importanti commentatori politici o anche la forma di comunicazione messa in atto da alcuni scienziati durante la pandemia.

Forse la società della rete non è semplicemente caratterizzata da quello che Alessandro Baricco chiamava il tramonto dei sacerdoti. È una società che porta alla nascita di un nuovo tipo di sacerdoti, che, seguendo Dal Lago, potremmo chiamare sacerdoti digitali, i quali, per quanto si presentino spesso come contrapposti, condividono in realtà la medesima postura culturale, comunicativa e argomentativa.