Stavano tutti bene sull’Open Arms. Nessuno era in pericolo di vita. E i migranti che si gettavano in mare lo facevano, probabilmente, solo per potere sbarcare il prima possibile. Del resto, è la versione del ministro Matteo Piantedosi, la ong spagnola non aveva chiesto aiuto alla guardia costiera libica, aveva rifiutato di consegnare una trentina di naufraghi a Malta e aveva declinato il posto sicuro offerto da Madrid, e poco importa che se per raggiungere il porto delle Baleari bisognava navigare ancora per giorni. Il teste della difesa, allora capo di gabinetto al Viminale, consegna agli atti del processo la sua verità: se il Cirm e l’Usmaf avessero certificato che a bordo i migranti avevano problemi di salute, di igiene o c’era un pericolo per l’incolumità dei naufraghi il governo Conte avrebbe dovuto aprire un porto sicuro nonostante «l’indirizzo politico» fosse chiaro: prima l’accordo con i Paesi dell’Ue per la redistribuzione e poi lo sbarco, costi quel che costi.

INCALZATO per tre ore alle domande dei pm, delle parti civili e alle precisazioni richieste dal presidente del collegio Roberto Murgia, Piantedosi ha ricostruito le fasi concitate di quei venti giorni di quasi cinque anni fa durante i quali i naufraghi rimasero a bordo dell’imbarcazione fino a quando l’allora procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio ne ordinò lo sbarco immediato a Lampedusa dopo avere constatato di persona le pessime condizioni di salute.

Una testimonianza ritenuta cruciale dall’avvocato Giulia Bongiorno, legale di Matteo Salvini, imputato a Palermo per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio. Tant’è che il difensore, alla fine dell’udienza, ha informato la Corte che rinuncerà a buona parte degli altri testimoni. Dunque quella del 22 marzo potrebbe essere l’ultima o la penultima udienza nell’aula bunker dell’Ucciardone prima delle arringhe finali. Per l’avvocato Bongiorno, «il ministro Piantedosi ha ricostruito l’intera vicenda con lucidità» evidenziando «non solo l’estrema correttezza dell’operato di Salvini ma finalmente in modo chiaro ha definito la linea di demarcazione che esiste tra chi si deve occupare di eventuali problemi di salute, incolumità, igiene e chi si deve occupare di sicurezza; quindi le valutazioni di sicurezza, diamo o no il porto sicuro, si possono superare quando ci sono problemi di salute: se i migranti stavano male sarebbero scesi».

«QUALIFICAMMO l’evento come di immigrazione clandestina e, valutati i comportamenti della Open Arms, avviammo le procedure per emanare il decreto interministeriale per impedirle l’ingresso in acque internazionali italiane – ha detto Piantedosi – La definizione di non inoffensività si basava sul comportamento attuale e pregresso della Open Arms che non aveva accettato il coordinamento della guardia costiera libica e che si dirigeva direttamente verso le acque italiane. Non si capisce perché chi raccoglie migranti deve venire in Italia. C’è Malta, c’è la Tunisia. Se si vogliono salvare vite umane e serve presto un porto perché non si chiede alla Tunisia ad esempio?». Comportamenti, secondo il ministro, «che svelano il vero retroterra ispirato a portare i migranti in Italia. Il salvataggio era secondario, secondo me».

RAGGELATE le parti civili. Veronica Alfonsi, presidente di Open Arms Italia allarga le braccia: «E’ stato un processo lungo, abbiamo assistito a molte udienze in cui si sono spese ore a parlare di galleggiabilità o non galleggiabilità dell’imbarcazione, quello che a noi interessa invece è che si dia voce alle persone soccorse che avevamo sulla barca, alle loro storie e alle loro vite, perché è quello che conta. Ci è sembrato che spesso si è parlato di loro come carichi residuali ma non è così perché sono vite umane». Quindi ha lanciato un monito: «Le politiche del governo Meloni sono insufficienti. Noi da quando siamo in mare chiediamo delle risposte, prima di tutto bisogna soccorrere le persone e salvare le loro vite e quindi serve un sistema di soccorso a livello europeo e poi un sistema di accoglienza e di redistribuzione in Europa. La risposta che è stata data finora dall’Ue e dall’Italia, di finanziare Paesi terzi come la Libia dove la violazione dei diritti umani è documentate da tutte le organizzazioni internazionali, non ci sembra adeguata in un sistema democratico».