La dichiarazione congiunta di 31 paesi sull’Egitto è stata letta ieri in videoconferenza dall’ambasciatrice finlandese Kauppi durante il dibattito generale del Consiglio Onu per i diritti umani (Unhrc), dedicato ai casi sotto osservazione: una pagina in cui stretti alleati del Cairo, venditori strutturali di aerei, navi e tecnologie militari per l’esercito e armi leggere per la polizia, noti investitori nel regime egiziano hanno messo nero su bianco una serie di gravi violazioni dei diritti umani commesse nella sponda sud del Mediterraneo.

Parole, è vero, ma talmente rare da attirare l’attenzione: è la prima pesa di posizione congiunta sull’Egitto presentata all’Unhrc dal 2014, l’anno successivo al golpe dell’ex generale Abdel Fattah al-Sisi.

Parole importanti anche alla luce del peso specifico di chi le esprime: tra i 31 paesi firmatari della dichiarazione congiunta c’è mezza Europa (tra gli altri Italia, Francia, Germania, Spagna, Svezia), ci sono il Canada e il Regno Unito, e ultimi in ordine alfabetico gli Stati uniti.

Nello specifico, si chiede al Cairo di interrompere la persecuzione di attivisti, giornalisti, oppositori politici veri e presunti, di «garantire spazio alla società civile perché lavori senza timore di intimidazioni, vessazioni, arresti, detenzioni».

L’elenco è lungo e tocca i tanti ingranaggi con cui il regime fa funzionare la rodata macchina della repressione interna: «restrizione della libertà di espressione e del diritto all’assemblea pacifica», «applicazione della legge anti-terrorismo contro i critici pacifici» e contro «attivisti, persone Lgbti, giornalisti, politici e avvocati», «divieti di espatrio e congelamento dei beni contro i difensori dei diritti umani», «restrizioni alla libertà mediatica e digitale e pratica del blocco dei siti dei media indipendenti».

Il documento chiude con un focus sulle pratiche giudiziarie del regime, dall’estensione continua della detenzione cautelare (è il caso di Patrick Zaki) al sistema delle porte scorrevoli, ovvero nuovi casi giudiziari con cui mantenere dietro le sbarre prigionieri politici che hanno terminato la loro pena, come Alaa Abdel Fattah.

Proprio l’attivista, nuovamente imprigionato a settembre 2019 dopo il rilascio pochi mesi prima, a inizio marzo ha denunciato l’uso della tortura con l’elettrochoc nella prigione di Tora, ma – hanno fatto sapere mercoledì diverse organizzazioni egiziane – la procura generale non ha indagato. Anzi: il ministero degli interni ha minacciato Mona Seif, la sorella di Alaa di procedimenti penali nei suoi confronti per accuse false.

Immediata la reazione delle ong internazionali, dopo che oltre 100 di loro all’inizio dell’anno avevano scritto agli Stati membri dell’Onu avvertendo del tentativo egiziano di «annientare le organizzazioni locali» e «sradicare il movimento per i diritti umani».

Ieri 20 di loro hanno risposto con un comunicato congiunto – firmato tra gli altri da Human Rights Watch, Amnesty, Dignity e diverse associazioni egiziane – per «esprimere forte sostegno» alla dichiarazione: «Pone fine ad anni di assenza di azioni collettive sull’Egitto da parte del Consiglio Onu per i diritti umani – il commento di Bahey Hassan, direttore del Cairo Institute for Human Rights Studies – Si deve continuare a dire al governo egiziano che non ha più carta bianca».

Ora è da capire se alle parole seguiranno i fatti. Che non sono affatto promettenti: appena un mese fa l’amministrazione Biden, dopo aver promesso di tirare il freno ad al-Sisi, gli ha venduto 168 missili tattici Raytheon, valore totale 197 milioni di dollari. Dell’Italia abbiamo parlato in abbondanza, dell’Europa anche: vale la pena ricordare che – dati Ue alla mano – nel 2019 gli Stati membri hanno autorizzato l’export di 16 miliardi di euro in armi al Cairo, quasi due terzi in più del 2014.

E poi c’è la Turchia che ieri ha annunciato la ripresa di contatti diplomatici con Il Cairo dopo otto anni di rottura, dovuta alla repressione della Fratellanza musulmana (di cui l’Akp di Erdogan è espressione) da parte di al-Sisi. Tantissimi i membri dei Fratelli fuggiti in territorio turco in cerca di protezione dopo il golpe che nel luglio 2013 portò alla rimozione del presidente islamista Morsi e all’inizio di una persecuzione sia legale che giudiziaria.

Senza contare la rivalità intorno alla questione libica – i due paesi stanno ai poli opposti – Ankara con la Tripoli di Sarraj, Il Cairo con la Bengasi di Haftar. Proprio la definizione dei confini marittimi, unilateralmente dichiarati da Sarraj ed Erdogan, sarebbe al centro delle discussioni tra i due paesi.