Da Abusal a Sabella, immagini-parkour fra le rovine di Gaza
Maen Hammad, «Landing» (serie), 2020-’23
Alias Domenica

Da Abusal a Sabella, immagini-parkour fra le rovine di Gaza

A Parigi, Institut du monde arabe Non una Palestina contro, ma com’è e com’è stata; un «altro» racconto, fra documenti della memoria, amare ma vitali incursioni nella condizione presente e un utopistico post-museo
Pubblicato 12 mesi faEdizione del 22 ottobre 2023

Raccontare la Palestina non nell’ottica del conflitto che la oppone a Israele ma com’è. Questa la ragione della mostra Ce que la Palestine apporte au monde che prosegue fino al 19 novembre all’Institut du monde arabe (IMA) di Parigi. Aperta lo scorso maggio nel centro parigino diretto dall’ex ministro francese Jack Lang, quando i curatori della rassegna non potevano sapere che le cronache di queste settimane avrebbero ancora una volta sbilanciato il prisma in favore dei fatti criminosi.

Motivo in più per tornare alla proposta parigina. I musei nazionali, lo si sa, raccolgono la volontà di uno Stato di riunire il proprio patrimonio culturale, le collezioni secolarizzate per metterle al servizio del suo popolo. Perché i musei, la maggior parte di essi, sono efficaci strumenti al servizio della costruzione delle identità delle nazioni. Ma i popoli che non hanno riconosciuta una loro terra, una nazione? E che, per giunta, vivono la tragedia di un conflitto bellico lungo, fin qui, tre quarti di secolo?

Per esempio la Palestina, popolo e territorio, che non è ancora uno stato sovrano e indipendente. In una simile situazione, nel 2016, a Birzeit, in Cisgiordania, ha aperto il Museo Palestinese. Un racconto soprattutto degli ultimi duecento anni, riunito attorno al materiale fotografico e audiovisivo dell’Unrwa, agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi. Dallo stesso anno, a Parigi, l’IMA ospita all’interno dell’edificio progettato da Jean Nouvel e Architecture Studio una «collezione solidale» che conta a oggi oltre quattrocento opere offerte dagli artisti dei cinque continenti: confluiranno in futuro a Gerusalemme Est in un Museo nazionale d’arte moderna e contemporanea della Palestina. Tra queste anche un ritratto del belga Marc Trivier del poeta e giornalista, membro dell’OLP e a lungo esule, Mahmoud Darwish.

La storia del popolo palestinese è anche quella della continua conquista di una visibilità storica e politica che passa, naturalmente, anche per la sua rappresentazione visiva. Images de Palestine. Un Terre sainte? Une terre habitée! indaga come le immagini possano contribuire alla lotta contro la cancellazione di un luogo. Una prima serie di fotocromie del XIX secolo restituisce la «scoperta» di una terra mitizzata dallo sguardo nostalgico dei primi occidentali orientalisti, frutto di un approccio tipicamente coloniale che a lungo peserà su queste zone, fatto di paesaggi stereotipati in cui anche gli abitanti sembrano statue inerti.

A questa Palestina come Terra Santa, congelata nel tempo, prigioniera di un passato mai trascorso, fa da contrasto la seconda parte della rassegna. Con quattordici fotografi contemporanei – Mohamed Abusal, Shady Alassar, Rehaf Al-Batniji, Taysir Batniji, Raed Bawayah, Tanya Habjouqa, Rula Halawani, Maen Hammad, Hazem Harb, Safaa Khatib, Eman Mohammed, Amer Nasser, Raeda Saadeh, Steve Sabella – che si riappropriano, attraverso l’immagine, della possibilità di scrivere un altro racconto. Un altro modo di rappresentare la loro terra, ma anche loro stessi in rapporto allo spazio pubblico; un mezzo per definire il loro ruolo sfidando la dominazione.

Sono immagini «abitate», non imbalsamate. Tra fotogiornalismo e arte, fotografia documentaria o concettuale, ci restituiscono brani di loro esperienze intime e vita quotidiana, lontane da ogni cliché, da qualsiasi vittimizzazione o eroicizzazione. Creano una rappresentazione insolita, inattesa ed estesa della Palestina per rivolgersi, oltre i confini, al resto del mondo. Qualche esempio. A League of Their Own di Eman Mohammed (Gaza, 1987; vive a Washington), con i ritratti di un giovane surfista che, nonostante le difficoltà nel fare attività agonistica e viaggiare, si allena per emanciparsi, attraverso un’attività ricreativa, dal contesto di Gaza in cui vive.

Mohamed Abusal, «Un métro à Gaza», 2011

Fare parkour – disciplina nata nelle banlieu parigine che consiste nell’abilità di compiere un percorso dato superando qualsiasi genere di ostacolo – a Gaza, tra edifici distrutti dalla guerra, rovine e aeroporto bombardato è al centro del lavoro di Shady Alassar (Gaza, 1983; vive a Istambul). Non senza ironia, vista, dice lui stesso, una certa esperienza a scavare tunnel da parte dei gazei, Mohamed Abusal (Gaza, 1976; vive a Gaza) immagina, nel progetto Un métro à Gaza, una linea di collegamento tra il nord e il sud del paese e una Rer che unisce i territori frammentati della Palestina. La serie Gaza’s collage di Rehaf Al-Batniji (Gaza, 1991; vive a Gaza) rappresenta la vita quotidiana durante le restrizioni della pandemia in un luogo dove il confinamento dura dall’embargo del 2007.

Taysir Batniji (Gaza, 1966; vive a Parigi), essendogli interdetta, dopo l’operazione militare israeliana a Gaza di fine 2008, inizio 2009 con più di 1300 vittime, la possibilità di tornare nella sua terra d’origine, ha chiesto al giornalista Sami Al-Ajrami una serie di fotografie di edifici civili bombardati. Ha dato vita così a GH0809 (Gaza Houses 2008-’09), dove presenta queste case distrutte come se si trattasse di annunci immobiliari: un testo descrive l’abitazione prima della sua distruzione, per rendere un ultimo omaggio ai suoi abitanti e per contribuire alla memoria di questi tragici fatti. In Military Zones Hazem Harb (Gaza, 1980; vive a Dubai) sovrappone a foto d’archivio degli anni venti, prima della colonizzazione di alcune aree di pascolo con abitazioni rurali, alcuni cartelli in cui avvisa come gli stessi spazi siano oggi interdetti, controllati, inaccessibili: zone militari.

Mahmoud Darwish in una foto-ritratto di Marc Trivier

Una sezione della mostra in corso all’IMA – che è curata da Elias Sanbar, Marion Slitine, Albert Dichy e Eric Delpontè – è infine dedicata al progetto del Museo Sahab («nuvola» in arabo), guidato dal collettivo Hawaf (margini, in arabo; fondato da Mohamed Abusal, Sondos Al-Nakhala, Mohamed Bourouissa e Salman Nawati). Un Museo delle Nuvole come luogo (non-luogo) contro la distruzione e l’oblio. «Un museo che – nelle parole di Hawaf – protegge il patrimonio archeologico, storico e artistico di questa enclave confinata, in cui l’unico modo di sognare è quello di guardare il cielo». Un museo-rifugio che preserva il passato della Palestina. Un «museo senza frontiere», smaterializzato, per contribuire, anche attraverso l’utilizzo della realtà virtuale, a far uscire Gaza dall’isolamento. Un «post-museo», riprendendo la definizione dell’attivista Françoise Vergèr, che supera il modello di «museo universale» come simbolo della dominazione coloniale.

Al momento idealmente sospeso nei cieli tra Gaza e Parigi, il Museo delle Nuvole evoca progetti utopici come quello, teorizzato da Le Corbusier nel 1939, di un Museo a crescita illimitata, o quello del Museo immaginario di André Malraux. Così la prima opera per il futuro Museo delle Nuvole, realizzata a Gaza da un gruppo di giovani street-artists, illustratori, scultori e cineasti invitati dal collettivo Hawaf, nella Galleria Eltiqa e ora esposta all’IMA, è un tela ispirata alla nuvola disegnata dall’artista palestinese Salman Nawati. A ogni artista è stato inoltre chiesto di scegliere un oggetto comune, un ricordo o un’opera d’arte per donarlo al museo. Ne è scaturita una piccola collezione che riflette storie intime e collettive attraverso artefatti insoliti e curiosi. Che sono stati digitalizzati per essere trasportati nello spazio virtuale, accessibili da ogni parte del mondo: anche nelle sale dell’IMA il visitatore è invitato a cercare attraverso il suo smartphone questi oggetti «nascosti» all’interno della tela collettiva.

L’Atelier della Nuvola, questo il nome del laboratorio che si è tenuto a Gaza nei primi mesi del 2023, sembra così rivisitare i cabinets delle curiosità, le Wunderkammern da cui sono nati i primi musei occidentali. Quell’archivio del mondo, quel microcosmo di cui parla il filosofo Krysztof Pomian. Dunque una «sintesi dell’universo» artistico di questa enclave in asfissia, una via d’uscita senza muri e confini, oggi, più che mai, tragicamente necessaria.

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