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D-Day a Washington. Trump in tribunale per l’incriminazione

D-Day a Washington. Trump in tribunale per l’incriminazione

America oggi L’ex presidente torna nella capitale per la prima volta dall’assalto al Campidoglio del 6 gennaio e si consegna alle autorità

Pubblicato circa un anno faEdizione del 4 agosto 2023

È entrato nel tribunale di Washington, per consegnarsi alle autorità e dichiararsi non colpevole, senza clamore. Donald Trump, atteso da poche decine di manifestanti, ha fatto il suo ingresso nell’edificio federale attraverso un garage sotterraneo, nel modo più defilato possibile. Ma per Washington la giornata di ieri è stata ribattezzata D-Day. D come Donald: la capitale si preparava al ritorno di Trump, “atteso” alla Federal Courthouse per essere formalmente incriminato – alle quattro ora locale, troppo tardi per noi – con l’accusa di aver cospirato contro la vittoria elettorale dell’avversario Joe Biden nel voto del novembre 2020, un piano che ha portato all’assalto di Capitol Hill.

AD ACCOGLIERE Trump è stata una città blindata, con schieramenti di forze dell’ordine, servizi segreti, transenne ovunque. Nell’area del tribunale, poco distante dal Congresso, ad accorrere per lo più sono stati i giornalisti, mentre i cittadini hanno preferito evitare la zona. In una città a grande maggioranza democratica il ritorno di Trump è più che altro una riproposizione del trauma collettivo che è stato il tentato golpe del 2021, quando gli Stati uniti hanno seriamente temuto per la tenuta della loro democrazia.

Se l’attenzione ai dispositivi di sicurezza è stata massima, altrettanto è stato il timore di nuovi incidenti. Mercoledì ci sono stati dei momenti di tensione quando è stato evacuato il Russel Building, uno degli edifici del Senato, a seguito di una chiamata al 911 fatta per denunciare l’arrivo di un uomo armato, notizia rivelatasi infondata ma che ha fatto sì che le aule venissero svuotate e che tutta la procedura per i mass shooting venisse attivata.

SIN DALL’ANNUNCIO della messa sotto accusa di Trump è stato chiaro che l’ex presidente si sarebbe dichiarato non colpevole, e che non sarebbe stato sottoposto ad alcun regime di carcere preventivo, visto che non sussiste il rischio che lasci il Paese in quanto, banalmente, è il candidato repubblicano di punta per le primarie repubblicane nella corsa alla Casa bianca. Questo concetto costituisce la linea di difesa principale di Trump e dei suoi avvocati, che hanno bollato quest’ultima incriminazione come «l’ennesimo tentativo da parte della corrotta famiglia Biden di trasformare in un’arma il dipartimento di Giustizia».

Su Truth Social Trump ha reiterato l’idea con veemenza: «Non è colpa mia se il mio avversario politico nel partito democratico, il ‘corrotto’ Joe Biden, ha detto al suo procuratore generale di accusare il principale (di gran lunga!) candidato repubblicano ed ex presidente degli Stati uniti, io, con tutti i crimini possibili così da costringerlo a spendere tutti i soldi per la difesa. I democratici non vogliono correre contro di me altrimenti non avrebbero avviato questa strumentalizzazione senza precedenti della giustizia».

OLTRE A TRUMP, questo processo oltre a Trump chiama in causa, come uno degli attori principali, anche l’ex vicepresidente Mike Pence, e la sua deteriorata relazione con il suo ex capo. Pence è una figura centrale nelle 45 pagine dell’incriminazione di Trump, e suo malgrado si ritrova ad essere uno dei testimoni più importanti dell’inchiesta sull’attacco al Congresso.
Durante i suoi quattro anni alla Casa bianca, Pence è sempre stato un sostenitore fedele di Trump, ma dopo aver perso le elezioni il tycoon aveva chiesto al suo vice di non convalidare la vittoria di Biden.
A seguito del suo rifiuto, Pence si è ritrovato ad essere uno degli obiettivi principali dell’ira di Trump e dei suoi sostenitori: durante l’attacco al Campidoglio venne portato via dall’agenzia governativa responsabile della sicurezza del presidente mentre la folla inferocita chiedeva di impiccarlo.

NELLE PAGINE dell’incriminazione di Trump si legge che il primo gennaio quest’ultimo aveva chiamato Pence per tentare ancora una volta di convincerlo a partecipare al «piano», e «lo aveva rimproverato» per il suo rifiuto: «Sei troppo onesto», avrebbe detto Trump a Pence, che aveva raccontato la stessa conversazione nel suo libro autobiografico pubblicato l’anno scorso. Ora sia Trump che Pence sono candidati alla nomination Gop, e proprio mentre l’ex presidente si dirigeva verso il tribunale, il comitato elettorale del suo ex vice ha iniziato a vendere magliette e cappellini con la scritta «Troppo Onesto», che sembra essere diventato il nuovo slogan della campagna Pence.

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