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Cura proporzionale per la democrazia malata

Nuovo Governo La democrazia italiana vive una fortissima crisi di legittimazione: dopo decenni in cui la rappresentanza politica è stata sacrificata sull’altare di una illusoria governabilità, bisogna iniziare quanto meno a ricostruire una qualche legittimità della rappresentanza parlamentare

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 8 settembre 2019

Massimo Villone ha già indicato, su queste pagine, alcune delle ragioni che rendono altamente consigliabile una riforma elettorale in senso decisamente proporzionale, sulla base delle (generiche) indicazioni del programma del nuovo governo.

Sentiremo se Conte aggiungerà qualcosa. Non sono (solo) ragioni tattiche contingenti («tagliare le unghie alla Lega»), né la paura di consegnare alla destra future maggioranze super-blindate, che dovrebbero spingere verso un sistema puramente proporzionale. Bisogna rispondere a una precisa domanda: in quale direzione vogliamo orientare la ristrutturazione del sistema politico italiano? Una legge elettorale, di per sé, non determina, ma certo può incentivare un diverso e più razionale e democratico assetto del sistema politico. Si pensa ancora di poter e dover forzare tale assetto in una direzione che si è dimostrata fallimentare oltre che nociva per la qualità della nostra democrazia? È incredibile come si possa restare ancora affezionati ad una «cultura del maggioritario» che ha prodotto molti guasti.

La democrazia italiana vive una fortissima crisi di legittimazione: dopo decenni in cui la rappresentanza politica è stata sacrificata sull’altare di una illusoria governabilità, bisogna iniziare quanto meno a ricostruire una qualche legittimità della rappresentanza parlamentare. Pensare che una ibridazione (modello Rosatellum) possa salvare capra e cavoli è un’idea clamorosamente smentita dalla realtà; ma se anche si potesse giungere ad un sistema coerentemente maggioritario (britannico o francese), ciò non garantirebbe nessuna facile governabilità, come stanno mostrando le vicende politiche di questi anni, mesi e anche giorni, in Gran Bretagna e Francia.

Ma quali sono le buone e forti ragioni per il passaggio ad un sistema coerentemente proporzionale?

Possiamo riassumerle così: tornare ad un sistema politico fondato sulle differenze e l’articolazione delle culture e delle identità politiche, non su incoerenti assemblaggi di partiti deboli e informi e di gruppi notabilari. Un sistema proporzionale con una soglia di acceso ragionevole (il 3%) permetterebbe di delineare (e incoraggerebbe la formazione di) un sistema di partiti che meglio risponde alla reale presenza di diversi orientamenti politici e culturali nella società italiana: una destra xenofoba e nazionalista, un centrodestra conservatore ma moderato ed europeista, un possibile nuovo partito di centrosinistra, una sinistra, una sinistra radicale.

E il M5S, in un tale contesto competitivo, sarà costretto – più di quanto lo stiano facendo le vicende di queste settimane – ad uscire dalla pretesa sua natura post-ideologica. Inoltre, si metterebbe fine alla retorica dei «ribaltoni»: ogni partito si presenta agli elettori con il suo profilo e ogni elettore sa in partenza che il governo sarà possibile solo sulla base della legittima e salutare ricerca di mediazioni e compromessi in parlamento. Forse anche il confronto politico ne potrà guadagnare: non una competizione muscolare su «chi vince», ma un dibattito pubblico volto a mettere in luce distanze o compatibilità tra programmi diversi. E la famosa governabilità non sarebbe certo meno garantita rispetto alla situazione attuale, od anche rispetto ai possibili esiti imprevedibili di meccanismi elettorali maggioritari; ed anche rispetto ai sistemi con premio di maggioranza, la cui logica e i cui effetti conosciamo oramai molto bene (e sfido chiunque a dimostrare che abbiano funzionato).

Perfino il livello di frammentazione sarebbe più basso: con i premi e con le varie formule maggioritarie, il potere di ricatto dei piccoli gruppi e dei singoli notabili è esaltato; con un sistema proporzionale (e soglia di accesso), i partiti maggiori si possono sottrarre ad un tale ricatto.

Un’ultima notazione: il lettore avrà notato che, nel delineare la possibile futura articolazione delle forze in campo, ho distinto tra un nuovo, eventuale, partito di centrosinistra e un partito della sinistra. Naturalmente, ciò allude ai destini del Pd, che si trova ora ad affrontare una nuova esperienza di governo nel momento in cui la nuova segreteria, dopo l’Assemblea nazionale di luglio, aveva programmato una serie di scadenze (una «costituente delle idee», la riforma dello statuto).

Sarebbe un errore se questi impegni dell’autunno venissero rinviati: già la stessa azione di governo imporrà scelte programmatiche non facili. Il Pd ha evocato una discontinuità: ma solo rispetto al governo gialloverde, o anche rispetto ai governi tecnici prima, e di centrosinistra poi, che hanno condotto a un catastrofico risultato elettorale?

Non sono pochi gli argomenti forti di quanti sostengono l’opportunità di una separazione consensuale tra le diverse anime del Pd; ma anche coloro che credono nella possibilità di restare uniti devono essere consapevoli che il partito così com’è non può reggere: il collante del governo non può bastare. Una profonda ridefinizione del profilo politico e culturale e del modello organizzativo del Pd è necessaria, pena una possibile implosione. Sarà anche questo un tema dei prossimi mesi.

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