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Crisi del credito, Italia e Germania a confronto

Nuova finanza pubblica Sono i dispositivi economico-produttivi, e non solo quelli finanziari, a non funzionare come un tempo e tornare indietro non si può

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 2 dicembre 2017

L’ultimo rapporto Scenari industriali del Centro studi di Confindustria conferma l’Italia come settima potenza industriale globale, seconda in Europa dopo la Germania. La distanza con il potente vicino è sensibile, ma alcune analogie sono evidenti e vengono confermate dal sistema creditizio che dei rispettivi sistemi industriali ne costituisce l’architrave. Nei primi anni della crisi, quando ancora non erano state approvate regole continentali per evitare aiuti pubblici incontrollati al sistema bancario, la Germania mise in cantiere un imponente sostegno al proprio sistema creditizio per circa 500 miliardi di euro.

Denaro non sempre esborsato (solo 200 miliardi circa), ma utilizzato semplicemente a garanzia. Insomma riuscì a puntellare un sistema messo a dura prova non solo dalla finanza creativa che aveva intossicato i suoi istituti principali, assurti a player globali, ma anche da tanta parte di quelle banche locali nevralgiche per le economie dei Lander che stavano pagando a caro prezzo la recessione. Le banche popolari o semi-pubbliche tedesche superano abbondantemente il migliaio e costituiscono una risorsa territoriale pervasiva che da tempo svolge azione di supporto all’apparato produttivo. La profonda recessione vissuta negli anni seguenti al 2007 ha prodotto grandi sconquassi al sistema del credito.

Difficoltà che rendono ancor più evidente un modello tedesco che ancora vive in simbiosi con le attività produttive e l’economia reale.

Sempre in quegli anni gli istituti di credito italiani apparivano più in salute, l’allora ministro Tremonti vantava addirittura una presunta solidità del sistema. A distanza di qualche anno, seppur risulti circoscritta l’attività speculativa e l’impiego di finanza tossica per il nostro sistema bancario (nulla di paragonabile a ciò che è accaduto nel mondo anglosassone), risulta altrettanto evidente come vi sia un effetto rinculo della crisi dell’economia reale negli istituti di credito legati ai territori.

Un fenomeno simile a quello tedesco dei Lander appunto. Senza considerare Mps (quarta banca italiana), sono andate in crisi le banche del Centro prima (Banca Etruria, Banca Marche, Cassa di Ferrara, CariChieti) e del Nord-est dopo (Veneto Banca e Popolare di Vicenza). Ma il sisma non si è ancora concluso e in queste ultime settimane ha raggiunto Carige e Credito Valtellinese.

La crisi di questi ultimi istituti emerge chiaramente al momento della formalizzazione della necessità di una loro ricapitalizzazione. Esse detenevano nei bilanci del 2016 crediti deteriorati, i famigerati Npl, pari rispettivamente a 7 e 4 miliardi di euro.

Dopo anni vissuti all’insegna di un ridimensionamento del valore di Borsa, ora si teme che non esistano nuovi creditori sufficientemente interessati alle operazioni di salvataggio. Le difficoltà per queste banche sono riconducibili prevalentemente alla loro tradizionale attività, cioè la raccolta di depositi dalla clientela per fare credito a imprese e cittadini.

La crisi ha tagliato le gambe alle medio-piccole banche disseminate lungo i territori. I debitori non sono solidi come si era ipotizzato negli anni delle vacche grasse e del credito facile. I piccoli risparmiatori ora tremano, le realtà locali dopo aver pagato duramente la crisi temono le conseguenze di una perdita delle loro infrastrutture del credito.

Un circolo vizioso che rischia di far nuovamente tornare sotto la linea di galleggiamento intere comunità.

Focalizzare correttamente questi problemi consente di relativizzare l’idea secondo cui basterebbe tornare alla sana economia reale di un tempo, magari a una variante di quella dei primi trent’anni del dopoguerra. Le cose sono più complicate: sono i dispositivi economico-produttivi, e non solo quelli finanziari, a non funzionare come un tempo e tornare indietro non si può.

La lettera di Giulio Tremonti sul manifesto del 9 dicembre 2017

Signora direttrice: ho letto sul suo giornale l’articolo di Marco Bertorello pubblicato il 2 dicembre scorso sotto il titolo «Crisi del credito, Italia e Germania a confronto».

Nell’articolo è scritto tra l’altro quanto segue: «Sempre in quegli anni gli istituti di credito italiani apparivano più in salute, l’allora ministro Tremonti vantava addirittura una presunta solidità del sistema». Grato per l’attenzione, mi permetto di rispondere con le parole del Governatore Draghi dette ancora il 13 luglio 2011 all’assemblea dell’ABI: «Le Banche italiane hanno dimostrato e continuano a dimostrare capacità di resistenza e di reazione …. In maggio la crescita sui tre mesi dei prestiti bancari a famiglie e imprese è stata ben superiore a quella media dell’area dell’euro… La vivace espansione dei finanziamenti alle imprese è riconducibile alla crescita della domanda anche se tuttora ingente soprattutto per le imprese, comincia a mostrare segni di rallentamento … Non c’è stata in Italia una bolla immobiliare … Abbiamo insistito perché le banche realizzassero tempestivamente aumenti di capitale… Dall’inizio dell’anno le banche italiane hanno deciso o realizzato ingenti aumenti di capitale… Siamo sulla buona strada».

Con preghiera di pubblicazione e tanto cordialmente.

Giulio Tremonti

La replica

Apprezzo la ricerca di confronto del professor Giulio Tremonti. Provo brevemente a rilanciare. Nel 2011 forse poteva sembrare che le banche italiane mostrassero «capacità di resistenza e reazione», ma il loro effettivo stato di salute va compreso con sguardo più lungo, non basta scattare un’istantanea.

La crisi del debito pubblico combinata con quella dell’economia reale in quegli anni trascinava in crisi anche il sobrio sistema bancario italiano.

Una crisi che ha coinvolto solo in parte i grandi istituti, ma che ha messo in ginocchio diverse banche medio-piccole, quelle appunto con funzioni più tradizionali strettamente legate ai territori. Le esigenze di ricapitalizzazione sono cresciute coinvolgendo grandi e piccole banche, attraverso il mercato e, nella misura del consentito, lo Stato.

Nonostante tutto, oggi siamo ancora il quarto paese europeo, dopo Grecia, Cipro e Portogallo, con la percentuale più elevata di crediti deteriorati.

Un sintomo dell’attuale congiuntura, dove gli eccessi del mondo del credito, seppur modesti sul versante finanziario stricto sensu, non sono mancati su quello economico-produttivo.

L’Italia paga una crisi generale dell’economia e nel 2011 l’allora Governo negava persino il problema, finendo per contribuire ad affrontarlo con colpevole ritardo.

Marco Bertorello

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