Con la sola imposizione di un cartello il ministro «del made in Italy» Adolfo Urso avrebbe voluto convincere i benzinai ad abbassare il prezzo della benzina e del diesel. Ieri il Tar del Lazio ha accolto un ricorso delle associazioni dei gestori degli impianti (Fe.Gi.ca., F.i.g.i.s.c.) e ha annullato il suo decreto del 31 marzo scorso, che ha stabilito le modalità di questa pratica segnaletica agli esercenti.

Per i giudici il ministro avrebbe omesso di avvertire la presidente del Consiglio Giorgia Meloni con un atto formale, la stessa che aveva lanciato la sua sfida alla «speculazione» dopo avere però deciso di tagliare i fondi già stanziati dal governo Draghi per contenere il prezzo dei carburanti. Secondo il Tar, inoltre, Urso non avrebbe chiesto un parere al Consiglio di Stato. Lo stesso al quale, ieri, ricorrerà l’avvocatura dello Stato contro la decisione del tribunale amministrativo.
I rilievi di quest’ultimo non sono solo formali. Attestano qualcosa di più grave a livello politico: l’approssimazione dell’azione di un governo, giudicato incapace di comunicare persino con se stesso, oltre che con le istituzioni di consulenza che dovrebbero aiutarlo a legiferare. La sentenza rivela, inoltre, il contenuto demagogico e populista della politica economica del governo ancora convinto del fatto che la responsabilità della speculazione sui prezzi del carburante sia dei singoli distributori che gli automobilisti incontrano sulla loro strada e non della finanziarizzazione del mercato dell’energia e dei suoi rapporti con il sistema di distribuzione e di stoccaggio dei carburanti che specula sui prezzi in occasione delle feste comandate, quando gli italiani prendono la macchina e vanno in vacanza secondo lo stile di vita stabilito dal capitalismo dei consumi e fondato sulle energie fossili.

Tra qualche settimana i prezzi risaliranno perché Natale sta arrivando e le multinazionali vogliono ricevere un dono sotto l’albero. Allora, presumibilmente, la scena si ripeterà: il governo scaricherà la responsabilità sui singoli distributori ed eviterà di prendere decisioni strutturali per modificare l’attitudine speculativa dell’intera filiera di cui essi sono solo il terminale.
L’equivoco di fondo è stato coltivato ieri da Urso che, in un comunicato, ha ricordato che i prezzi sono diminuiti (1.827 euro al litro per il gasolio e 1.838 euro al litro per la benzina). Come se questo fosse il risultato dell’ostensione dei cartelli in autostrada, e dunque della libera scelta del consumatore «razionale» che sceglie l’offerta più conveniente.
«L’introduzione del prezzo medio non ha in alcun modo contribuito a ridurre i prezzi che hanno invece proseguito nel loro solito andamento. Prima si sono alzati nel primo periodo di agosto e poi si sono abbassati seguendo le solite vecchie dinamiche e la solita doppia velocità a danno dei consumatori» ha commentato Massimiliano Dona di Unione Nazionale consumatori. Per quest’ultimo sarebbe più utile che il governo introducesse una «app» prevista da uno dei suoi decreti -legge (il 5/2003) che permetterebbe di scegliere chi fa i prezzi più bassi.

La bocciatura dell’obbligo di esporre il prezzo medio dei carburanti è «l’ennesima figuraccia di Urso dopo quelle sul caro voli, i disastri ex Ilva e Tim e una legge di bilancio dove le imprese sono le grandi dimenticate» ha detto Antonio Misiani (Pd). «I prezzi medi dei carburanti sono rimasti a livelli spropositati per quasi tutto il 2023 da quando Giorgia Meloni ha deciso di stoppare gli sconti sulle accise su benzina e diesel. Persino vantandosene, oltretutto» aggiunge Chiara Appendino dal M5S.