Motori spenti e braccia incrociate. Migliaia di camionisti sudcoreani sono in sciopero da più di otto giorni, paralizzando l’economia del paese. La contestazione minaccia pesanti ripercussioni sulle catene di approvvigionamento globale, già alle prese con ostacoli come Covid, guerra in Ucraina e i lunghi lockdown in Cina.

La decisione degli autotrasportatori è già costata al settore industriale della Corea del Sud più di 1,2 miliardi di dollari in perdita di produzione e consegne non effettuate. Ma le ripercussioni economiche non preoccupano i camionisti, intenzionati ad andare avanti dopo il flop di quattro tornate negoziali con il governo.

A PAGARNE le spese sarà soprattutto il settore della produzione di chip e di componenti base nel settore hi-tech, di cui Seul è tra i principali leader al mondo. L’ultimo allarme è arrivato ieri. La Korean International Trade Association ha reso noto che una società coreana che produce alcol isopropilico, sostanza chimica usata nella pulizia dei wafer dei chip, ha incontrato difficoltà nella spedizione a una compagnia cinese che a sua volta fornisce wafer ai produttori di chip: circa 90 tonnellate di prodotto, pari a una settimana di spedizioni, sono state consegnate in ritardo.

L’impatto sui produttori di chip, secondo alcuni analisti citati dalla Reuters, sarà comunque limitato: i colossi dei semiconduttori Samsung e SK Hynix hanno riserve di materiali sufficienti per più di tre mesi.

Con lo sciopero rischia anche la catena di approvvigionamento dei settori del cemento, petrolchimico, acciaio e automotive. I colossi nazionali automobilistici hanno interrotto l’attività produttiva in alcuni stabilimenti per la carenza di materiale o per un eccesso di prodotti finiti. Nello stabilimento della casa automobilistica di Hyundai, nella città meridionale di Ulsan, la produzione è scesa di circa il 60% lo scorso 10 giugno: l’interruzione dell’attività del sito, che solitamente assembla 6mila veicoli al giorno, è costata al colosso 254 milioni di dollari.

SUONA INVECE come una preghiera la richiesta dei portuali della città di Busan, il settimo porto per container più grande del mondo che rappresenta l’80% del traffico nazionale. A gran voce i portuali hanno chiesto ai camionisti di porre fine alla protesta, per evitare che le piccole e medie imprese subiscano tragiche conseguenze economiche.

Ma l’appello è caduto nel vuoto. La Cargo Truckers Solidarity, il sindacato che conta 22mila camionisti, è intenzionato a portare avanti la mobilitazione generale. Per ora non c’è alcuna marcia indietro dal sindacato, che punta il dito contro il ministero dei Trasporti per non essere «né disposto a parlare né in grado di risolvere la situazione attuale».

ALLA BASE della protesta c’è l’impennata dei prezzi del carburante e la richiesta di garanzie salariali minime. I camionisti hanno avanzato una richiesta specifica al governo: la proroga del «Sistema di tariffe di trasporto sicuro», che scade il prossimo 31 dicembre e che garantisce tariffe minime sui costi dei carburanti per i camionisti che trasportano container e prodotti in cemento. Da qui, l’altra istanza: estendere a tutta la categoria la misura introdotta dall’ex presidente democratico Moon Jae-in nel 2020, in piena pandemia.

Lo scontro è quindi politico, ma Yoon Suk-yeol, insediatosi al governo solo il mese scorso, vuole tenersi lontano dalla disputa sindacale. Il premier, che in campagna elettorale aveva criticato i sindacati, sembra minimizzare il problema che potrebbe però travolgere il governo di Seul e l’economia mondiale.