Così Washington si gioca la faccia. E nel mondo c’è già chi ride sotto i baffi
Le reazioni di fronte al caos post-voto In attesa del verdetto, occhi puntati sul Paese ha nelle critiche alle elezioni altrui uno degli strumenti più affilati della sua politica di ingerenze
Le reazioni di fronte al caos post-voto In attesa del verdetto, occhi puntati sul Paese ha nelle critiche alle elezioni altrui uno degli strumenti più affilati della sua politica di ingerenze
Il tabù si infrange alle otto del mattino ora di Washington. «Palese abuso di potere», dichiara l’Osce. «Accuse senza fondamento contro presunte pecche del sistema, in particolare da parte del presidente anche nella notte elettorale, sono dannose per la fiducia nelle istituzioni democratiche». È la prima istituzione internazionale a reagire all’assalto che Donald Trump sta portando alle istituzioni democratiche del proprio paese.
Negli Stati uniti i ragionieri del voto contano e ricontano, i media di tutto il mondo aspettano col fiato sospeso, il presidente tuona contro brogli che vede solo lui e mobilita avvocati, ma nessun governo estero aveva ancora aperto bocca, nessuna entità sovranazionale aveva commentato lo show in corso alla Casa bianca. Fino all’Osce.
MICHAEL GEORG LINK è un tedesco del Baden-Württenberg, ha 57 anni, è stato deputato per il vecchio partito liberale Fdp, insomma è tutto tranne che un radicale. È uno dei massimi dirigenti dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), che con 57 stati membri è la più vasta organizzazione internazionale per la sicurezza. In particolare Link dirige la divisione «Istituzioni e diritti umani», quella che sorveglia le elezioni. Negli Usa ha un team di 30 persone – dovevano essere 500 ma a un mese dal voto la missione è stata ridotta all’osso, ufficialmente causa Covid – e annaspa tra le limitazioni del democratico paese nordamericano, in cui la presenza di osservatori stranieri è vietata dalla legge tranne che in un paio di stati. Ebbene, nessuno dei suoi ispettori superstiti ha segnalato alcuno dei problemi per cui Donald Trump accusa, si infuria, e minaccia sfracelli.
Il resto del mondo osserva uno stupefatto silenzio, in parte perché non c’è ancora niente da commentare – tra un assalto di avvocati e una manifestazione di trumpisti armati, il conteggio dei voti per ora prosegue – e in parte perché è difficile e politicamente pericoloso commentare il paese-guida, che ha nelle critiche alle elezioni altrui uno degli strumenti più affilati della sua politica di ingerenze. C’è un’autorità morale nordamericana che, vera o presunta, inibisce le voci dell’Occidente. È quella autorità ad essere in gioco.
[do action=”citazione”]Trump rischia di perdere solo le elezioni, ma gli Stati uniti rischiano di perdere la faccia.[/do]
Tra i pochi commenti all’indecoroso spettacolo offerto da The Donald c’è il Beijing News, giornale controllato dal Partito comunista cinese: «Non importa chi vince, la società americana non riuscirà più a tornare quella che è stata». Sempre in Cina il tabloid nazionalista Global Times ha scritto mercoledì che «le profonde divisioni contraddicono i valori democratici». E mentre in Russia il governo si limita a chiedere che «i voti siano contati correttamente», il canale di stato RT parla di «immagine sinistra della democrazia Usa».
L’ex ministro degli Esteri della Gran Bretagna Jeremy Hunt ha detto alla Bbc che questa vicenda «metterà un sorriso sulla faccia di presidenti come Putin o Xi Jinping». Superpotenze a parte, in tutti e cinque continenti ci sono cancellerie che ridono sotto i baffi, e altre – come il Brasile – in cui il metodo Trump potrebbe essere esportato. Eduardo Bolsonaro, figlio deputato del presidente di ultradestra, ha detto alla Folha de São Paulo: «Quello che succede lì si può ripetere qui».
L’EPISODIO PIÙ RECENTE è la Bielorussia, dove gli Usa non hanno riconosciuto l’elezione di Alexander Lukashenko. Ma senza andare lontano, nell’ottobre del 2019 in Bolivia gli Stati uniti giudicarono illegittima l’elezione di Evo Morales e, con un aiuto dell’Organizzazione degli Stati americani, favorirono il colpo di stato che costrinse Evo a fuggire in Argentina (Morales aveva da tempo espulso l’ambasciatore americano e ogni altro rappresentante di Washington, dalla Dea alla Cia).
Nelle prime ore di mercoledì, l’ambasciatore americano in Costa d’Avorio Richard Bell ha reso pubblico un comunicato in cui condannava «le violenze del periodo elettorale» e chiedeva ai leader politici del paese (più che altro al presidente Ouattara, rieletto col 94%) di «mostrare il loro impegno nei confronti del processo democratico e dell’autorità della legge».
Un pugno di ore prima, Donald Trump era apparso alla Casa Bianca strillando frode, brogli e Corte suprema. Processo democratico e autorità della legge? E chi se ne frega.
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