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Cosa racconta di noi la «lista indiana»

Cosa racconta di noi la «lista indiana»

India Ha suscitato grande scalpore lo scorso autunno la lista pubblicata da Raya Sarkar, la giovane studentessa di legge di origine indiana che ha deciso di rendere pubblici i nomi degli […]

Pubblicato più di 6 anni fa

Ha suscitato grande scalpore lo scorso autunno la lista pubblicata da Raya Sarkar, la giovane studentessa di legge di origine indiana che ha deciso di rendere pubblici i nomi degli oltre 60 intellettuali e accademici che studentesse, ex-studentesse e colleghe avevano indicato come molestatori. La «lista indiana» includeva nomi di grande fama, come quello di Dipesh Chakrabarty e di Partha Chatterjee, studiosi noti in tutto il mondo per i loro contributi alla teoria post-coloniale e ai Subaltern Studies, espressione, almeno sulla carta, di un progetto politico di solidarietà radicale con tutt@ coloro che non hanno una voce.
La lista va letta all’interno dell’India contemporanea, nel luogo in cui la cultura patriarcale si innesta sulla violenza castale, producendo un contesto di violenza quotidiana contro individui appartenenti alle caste più basse, in primo luogo le donne.

«La lista indiana», come è stata chiamata, nasce qui. A essere sincere, non vi è testo che parli dell’India contemporanea nel quale le donne non chiariscano di sentirsi straniere in una terra altrui, ostaggi in terra nemica. Commentando il prestigioso Istituto Indiano di Tecnologia (IIT), per esempio, Maitreyee Shukla descrive un luogo pervaso dalla cultura patriarcale, dove la distribuzione di genere è profondamente disomogenea, con 16 dormitori maschili e 3 femminili; dove il privilegio maschile accusa le donne d’essere incompatibili con la scienza; rivendica lo stupro come una specie di complimento nei confronti di lei e si estrinseca in continue «micro-aggressioni triviali» attraverso le quali gli uomini rivendicano di essere «padroni del nostro tempo, spazio e corpo». In Some Thoughts on The List, Shraddha Chatterjee parlava non a caso del mondo accademico come «uno spazio insicuro» nel quale gli uomini si trasformano in «mostri», protetti dall’immunità.

Per Shraddha Chatterjee, la lista ha mostrato esattamente questo: «Quanto impotenti ci siamo sentite per aver dovuto ricorrere a questo metodo solo per condividere un avvertimento: State attente a quell’uomo». La lista indiana pubblicata da Raya Sarkar nasce qui, dal tentativo di difendere le donne nelle università. Percepita come una specie di terremoto nel contesto accademico indiano, non sorprende che sin dal principio sia stata frontalmente osteggiata. Particolarmente esplicite in questo senso sono state le femministe che si riuniscono attorno alla rivista Kafila.
Le studiose, in gran parte colleghe degli uomini «listati», appartenenti a caste «elevate» e con un background socio-economico privilegiato, rappresentano nomi storici del femminismo indiano.

Hanno criticato la scelta di usare i social media come strumento di denuncia dato il rischio di diffamare e disonorare gli uomini accusati di molestie, in una prassi politica distante dalla tradizione storica del femminismo indiano che ha da sempre privilegiato le battaglie legali e formali – battaglie che oggi mostrano tutti i propri limiti, come ci racconta una sostenitrice della lista, Arpita Chakraborty. Altre critiche si sono concentrate sull’anonimato delle donne che hanno sporto denuncia e sul fatto che le prove non siano state rese pubbliche.

Queste le critiche di Partha Chatterjee, una posizione principalmente volta a delegittimare l’accusa piuttosto che ad affrontare i problemi sollevati. Chattarjee ha chiesto a Raya Sarkar di rendere pubbliche le accuse rivoltegli. Sarkar si è rifiutata temendo che, dall’accusa, Chattarjee potesse risalire all’identità dell’accusatrice: non solo, in molti casi, alle denunce non sono seguiti provvedimenti disciplinari, ma spesso le donne che hanno denunciato si sono trovate poi a essere ostacolate in sede di esame, nella carriera e nella vita universitaria più in generale.

Ed è qui uno dei maggiori problemi. In un contesto nel quale il potere accademico è squisitamente maschile, come avviene in India e anche in Italia, chi lancia certe accuse deve partire dal presupposto che l’accusato può contare su una immunità di fatto, nonostante per legge esistano comitati contro gli abusi sessuali in ogni università che, in teoria, dovrebbero agire a tutela della vittima. Per Raya Sarkar, che abbiamo raggiunto per commentare la vicenda, non importa quanti siano stati i testimoni, il numero di donne che ha sporto denuncia o le prove addotte, il tratto comune nella reazione di accademici e intellettuali è stato il tentativo di presentarsi come vittime innocenti di accuse ingiuste e gratuite.
Il privilegio di rivendicare una posizione di innocenza si riflette nella modalità con cui il comitato disciplinare all’interno delle università ha reagito alla denuncia della studentessa nell’unico caso in cui alla lista è seguita una denuncia formale, spiega Arpita Chakraborty.

L’Università Ambedkar di Delhi (AUD) ha trovato Lawrence Liang, Preside della Facoltà di Legge, colpevole di aver molestato una giovane studente di dottorato. Mentre le indagini, conclusesi a febbraio scorso, raccomandavano un processo penale contro Liang e la sospensione dai suoi doveri amministrativi, il professore continua a insegnare e a occupare la sua posizione. Ha annunciato che farà ricorso presso la Corte Suprema, e la sua difesa è stata a tal punto intrisa di una percezione di innato diritto al corpo di lei da consentirgli di sostenere in propria difesa che «i baci indesiderati non costituiscono una molestia sessuale». Si tratta atteggiamento simile a quello di Shiv Visvathan il quale, in un articolo di lunedì scorso sull’e-magazine Outlook, si chiede dove, nell’era post-lista, siano finite «l’intimità, la conversazione, l’amicizia» ora che le studentesse sono state messe in guardia.

La tragica sensazione, seguendo questi sviluppi, è che la linea di demarcazione tra il consenso e lo stupro sia funzione del privilegio maschile, che rivendica il diritto di posizionarla dove vuole. Torna alla mente il caso di Dipesh Chakrabarty, catapultato al centro dei racconti e delle memorie personali di Christine Fair, che lo aveva citato in un articolo pubblicato su Huffington Post, #HimToo: A Reckoning (#Anchelui: la resa dei conti), nel quale raccontava di come la permanenza di lei all’università fosse stata caratterizzata dal ricorrere di atti violenti compiuti su o contro di lei da parte di uomini – professori, colleghi e studenti – che potevano esercitare un potere, dall’alto di una gerarchia accademica che conferiva loro lo status di immunità.

Lo svelamento di questo privilegio era proprio uno degli obiettivi della lista, che in questo senso è stata dirompente per quanto non risolutiva. Anche laddove trovato colpevole, nessun accademico ha perso il proprio lavoro, il proprio status o la propria credibilità. Spiace osservare che, nonostante lo sforzo di denuncia portato avanti da queste donne, tale credibilità sia rimasta integra anche in Italia.

È recente, infatti, l’annuncio della prossima pubblicazione di una edizione critica del Manifesto di Marx ed Engels per la casa editrice Ponte alle Grazie alla quale Chattarjee ha contribuito come espressione del pensiero post-coloniale. Evidentemente, il «comunismo» e il pensiero «post-coloniale» possono prescindere dalla lotta delle giovani femministe indiane, insufficiente per scalfire la legittimità teorica del privilegio maschile.
Le ricadute legali e giudiziarie della lista hanno messo in luce la pervasività della logica patriarcale. Ma soprattutto, la lista ha aperto un dibattito importante sul «come fare» solidarietà intersezionale in un ambiente, quello accademico, dove precipitano differenze di casta, genere e classe. Studiose e studentesse, tra cui Drishadwati Bargi, mettono in luce la sistematica estromissione delle persone dalit, ovvero di casta considerata «inferiore», da spazi di agibilità politica che possano dare loro dignità, spingendole a gesti disperati come quello di Chuni Kotal, Muthu Krishnan o Rohit Vemula, tutti dalit suicidatisi a causa degli abusi subiti in università. Come sottolinea Bargi, le persone dalit e ancora meno le donne dalit non sono nemmeno pensate come corpi sessuati con cui si può essere in solidarietà – come mostrato dalla vicenda della rivista Kafila.

L’accademia è legata a forme di oppressione di classe, genere e razza perché produce e ha prodotto storicamente la conoscenza necessaria a legittimarle, sostenerle, rafforzarle. Non sorprende quindi che essa sia attraversata dalle contraddizioni messe qui in luce. Siccome, come scrive Mary Beard nel suo Women and Power, la cultura occidentale vanta millenni di silenziamento delle donne, noi sosteniamo le studentesse e studiose indiane. Da qui, il nostro compito è quello di essere buone alleate, informandoci e imparando, dando loro visibilità e agendo in coerenza con quello che ci insegnano.

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