L’immediatezza dell’haiku – che secondo il suo più grande esponente, Matsuo Basho, esprime ciò che sta accadendo qui e ora – ha guadagnato a sé diversi autori di lingua spagnola, fra i quali Jorge Luis Borges, fedelissimo alla metrica tradizionale, che ha composto sia tanka che haiku; ma è stato Mario Benedetti a riservargli contenuti «inevitabilmente latinoamericani»: lo scrittore uruguayano, in un breve saggio sulle virtù di questo genere poetico, forse per sottolinearne la capacità di convocare grandi penne al di là del Giappone, rivelò di avere letto il primo haiku non in una pubblicazione specialistica ma nel libro di una eccellenza delle lettere argentine, Salvo il crepuscolo di Julio Cortázar, ora edito da Sur (traduzione di Marco Cassini, pp. 400, € 25,00). Il titolo nella versione spagnola cita  un verso dello stesso Bashô, così come lo  tradusse Octavio Paz nel 1957, che Cortázar scelse come epigrafe per una sezione del libro. A suo tempo, Benedetti si domandò se, nel crepuscolo di quei versi, Cortázar avesse visto il prologo alla notte o piuttosto l’anticamera della morte. Entrambe le letture sono possibili: dopo la tragica scomparsa della sua ultima compagna – la scrittrice e fotografa Carol Dunlop – Cortázar dedicò gli ultimi anni a preparare Salvo il crepuscolo per consegnarlo al suo editore alla vigilia della propria morte, nel febbraio del 1984. La notte –  «un fiume che in sé stesso sfocia» ­ è del resto un leitmotiv del libro: «Tutto è sempre arrivato dalla notte, l’ineludibile background, madre delle mie creature diurne» –  confermandosi come un viatico al sogno, «che arriverà dalla sua porta invisibile».

L’orchestrazione del libro funziona come un ensemble di jazz in cui tutte le parti si integrano ­«resto ostinatamente convinto che poesia e prosa si alimentino reciprocamente e che leggere alternandole non le aggredisca né le annulli» – dove le epigrafi che lo scandiscono  e gli assolo dei testi in prosa lasciano cantare i versi: «ma cos’è questo ritmo di alte nuvole scomposte».

In apertura del libro, Cortázar si rivolge direttamente al lettore in un «discorso del non metodo, metodo del non discorso», la cui strategia compositiva  rivela una assenza di cronologia, di esplicitazione dei luoghi e dei nomi, governata dalla forza centripeta della  negazione,  che tiene insieme le parti di cui si compone il testo. Quel che assicura al lettore di questo libro (come di altri) la validità del suo viaggio è il cambio continuo di stazione, senza l’ausilio di una bussola, tanto che  «a furia di disordine si viene a creare un ordine».

La maggior parte delle pagine di Salvo il crepuscolo è comunque occupata da poesie, organizzate sia nella forma chiusa del sonetto sia in versi liberi, di cui  la bella edizione Sur riproduce anche il manoscritto,  con giochi grafici  («tessere di un mosaico che la mano e l’occhio possono ricombinare all’infinito»). Fra queste,  i versi dedicati alla scrittrice uruguayana Cristina Peri Rossi,  prima compagna e poi amica di Cortázar, testimone della versione non ufficiale della morte dell’autore che, nel 1981, si sarebbe ammalato non di leucemia bensì di Aids, patologia allora sconosciuta, a seguito di una trasfusione.

Sebbene oggetto di disaffezione più volte espressa, le liriche – «eccessivamente personali, un erbario per i giorni di pioggia, mi si accumularono nelle tasche del tempo» – sono il   genere al quale Cortázar si rivolse per il suo esordio, Presencia,  raccolta di poesie pubblicata nel lontano 1938 sotto lo pseudonimo Julio Denis. Come scrive Marco Cassini nella nota dell’editore-traduttore, in Salvo il crepuscolo lo scrittore argentino  riesce a evitare il rischio che antologizzare questi suoi testi, tanto poesie inedite che pubblicate tra gli anni Cinquanta e Settanta, si risolva in una loro monumentalizzazione. Nonostante la sua immersione nel  tempo remoto («raccolgo qui per le ore in cui qualcosa chiama dal passato»), il libro, intrecciando amore e erotismo con riflessioni sullo scorrere della notte e sulla politica, è  fedele all’estetica della fase più recente di Cortázar. Il lettore vi riconoscerà  le  geografie disperse dell’autore – da l’Avana a Barcellona, da Venezia a Amsterdam – e vi ritroverà i luoghi abbandonati a causa della avversione dell’autore al presidente Juan Domingo Perón, dopo che nel 1951 si trasferì da Buenos Aires a Parigi.