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Contro la violenza sulle donne serve una rete più forte

Contro la violenza sulle donne serve una rete più forte

L'indagine di ViVa Il progetto triennale nato da un accordo tra il dipartimento per le Pari Opportunità e il Consiglio nazionale delle ricerche evidenzia l'assenza delle istituzioni. Emerge anche l’assenza di preparazione degli operatori nel parlare di violenza con chi la commette

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 7 dicembre 2022

«Quelli che presentiamo sono dati che dovrebbero essere cruciali per il lavoro del nuovo governo. Perché il problema della violenza sulle donne non è solo il femminicidio». Così la dirigente di ricerca del Cnr Maura Misiti ha concluso l’incontro di presentazione della seconda edizione del progetto ViVa, nato nel 2017 da un accordo del tra il dipartimento per le Pari Opportunità e il Consiglio nazionale delle ricerche.

Insieme ad ActionAid, la rete D.i.re e altre quattro realtà impegnate nel contrasto e nell’indagine della violenza di genere, ViVa ha rintracciato nella creazione di rapporti stabili tra Centri antiviolenza (Cav), case rifugio e servizi generali – servizi socioassistenziali, forze dell’ordine, servizi sociosanitari, istituzioni scolastiche, sistema giudiziario e società civile – la chiave per realizzare servizi integrati e aiutare le donne a uscire dalla violenza. Le reti territoriali esistenti, però, sono ancora altamente carenti e faticano a mettere a punto degli interventi che diano centralità alla donna.

Nel 2021 la mappatura Istat segnalava 376 Cav e 431 case rifugio attivi in tutto il territorio nazionale, che hanno dato supporto a 54mila donne e ne hanno accompagnate oltre 19mila in un percorso di fuoriuscita dalla violenza. Nel 94% dei casi questi fanno parte di una rete composta da associazioni, prefetture, servizi sociali e da tutti gli enti che possono fornire supporto e servizi. Possibilità da cui restano esclusi alcuni territori del sud Italia, dove l’assenza di reti è la causa di un sostegno insufficiente. «I servizi per cui i Cav e le case rifugio ricorrono più spesso alla loro rete di riferimento – spiega Maria Giuseppina Muratore, ricercatrice Istat – sono il sostegno ai minori, alla genitorialità e il supporto linguistico-culturale. I punti più deboli vengono compensati da un aiuto esterno».

Le reti aiutano poi a segnalare i casi di fragilità e rinviare agli attori più adatti le donne che cercano aiuto. «È un’interrelazione complessa. Il 31% delle donne che arriva ai Cav lo fa tramite servizi territoriali: un terzo ha già chiesto aiuto alle forze dell’ordine o al pronto soccorso. Allo stesso modo, le donne che escono dalle case rifugio nel 30% dei casi vengono rinviate ad altri servizi».

Le reti differiscono tra loro anche in base a chi le coordina, un ruolo che, nella maggior parte dei casi e con picchi nel nord-ovest, è ricoperto dai comuni stessi, mentre in Sicilia e Sardegna la prevalenza è di reti che rispondono alle prefetture. Condizione insolita, sulla cui efficacia, suggerisce Muratore, «bisognerebbe indagare». In generale, le reti sono un equilibrio di forze spesso fragile, in cui gli attori hanno pesi diversi e modalità di azione opposte e non coordinate.

«Nella tutela dei figli, ad esempio, entrano in gioco meccanismi complessi, che evidenziano appieno le differenze di approccio tra i Cav e i tribunali per i minorenni», spiega Maria Rosa Lotti dell’associazione D.i.re, attiva in 18 regioni con 82 centri tra Cav e case rifugio.

I protocolli di intervento dei servizi sono delle procedure talmente standardizzate e con una possibilità residuale di scelta per la donna che contrastano con i percorsi di autonomia messi in atto dai nostri centriMaria Rosa Lotti

Non prendono attivamente parte alle reti, inoltre, alcuni soggetti – come centri per l’impiego, aziende di edilizia residenziale pubblica, enti di housing sociale, associazioni sindacali e aziende – che sarebbero fondamentali in un percorso di fuoriuscita dalla violenza che aspiri all’empowerment femminile, ovvero una condizione di indipendenza economica, sociale e abitativa. Oltre il 60% delle donne che arrivano nei Cav, infatti, non sono economicamente autonome e, per chi non ha mai lavorato, uscire dalla violenza diventa ancora più complesso.

Il grande assente, però, sono le istituzioni. Le politiche territoriali constano di misure eterogenee e intermittenti, spesso finanziate tramite bandi. «Per raggiungere l’autonomia è necessario partire dai diritti socioeconomici, già scarsamente garantiti alla cittadinanza e ancora meno alle donne – dice Rossella Silvestre di ActionAid –. Blocchiamo gli sfratti nei casi di fragilità, proponiamo la sospensione delle rate del mutuo, rinnoviamo il reddito di libertà, che al momento è soltanto una corsa a chi arriva prima e non un diritto».

Nel rapporto pubblicato a novembre viene precisato, però, come il reddito di libertà possa al più rappresentare una misura di supporto emergenziale. L’indipendenza della donna è, invece, strettamente dipendente da un reddito stabile, percepito tramite un lavoro, e da una condizione abitativa che non siano le case rifugio. «Bisogna dare riconoscimento a questo periodo di momentanea vulnerabilità ed eliminare la neutralità delle politiche pubbliche esistenti», aggiunge Silvestre.

La richiesta per garantire alle donne vittime di violenza di essere riconosciute come soggetti in condizione di fragilità e accedere a vantaggi come la riduzione dei contributi era già stata sottoposta all’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando dalla cooperativa sociale Eva, «da cui abbiamo ricevuto promesse mai mantenute». Lella Palladino gestisce tre laboratori di inserimento al lavoro e accompagnamento all’autonomia, tramite una strategia di «rinforzo dell’autostima, per consentire alle donne di guardarsi con i propri occhi e non con quelli dell’uomo che ha compiuto violenza».

La sicurezza delle donne passa anche dall’azione sull’uomo violento. I Centri per gli autori di violenza in Italia sono più recenti e meno consolidati dei Cav, ma anche questi sono previsti dalla convenzione di Istanbul, che all’art.16 ne sancisce la creazione e il rapporto di collaborazione con i servizi dedicati alle vittime. Nell’indagine di ViVa del 2017 se ne contavano 54 sparsi per il territorio nazionale e 1.200 persone prese in carico. L’obiettivo prioritario non è la loro tutela, ma la sicurezza delle donne e dei loro figli. Le modalità di accesso sono spontanee nel 40% dei casi, mentre per oltre la metà si tratta di soggetti indirizzati da tribunali e avvocati, servizi sociali e autorità giudiziarie.

L’assenza di preparazione degli operatori nel parlare di violenza con chi la commette e contrastare le frequenti forme di minimizzazione, banalizzazione e colpevolizzazione delle vittime è una delle criticità evidenziate dalla ricerca. Un’altra, segnala Alessandra Pauncz, presidente dell’associazione Relive – Rete nazionale centri per autori di violenza, riguarda i tribunali ordinari civili e quelli per i minorenni, che, nei casi di separazione con violenza da parte del partner, applicano misure insufficienti alla tutela della sicurezza della donna.

«Le visite protette tra genitore e figli vengono spesso sospese dopo pochi mesi, dando all’uomo la possibilità di avvicinarsi di nuovo alla donna e commettere violenza, senza che si sia prima agito sul suo comportamento – conclude Pauncz – . Vogliamo un contenimento alla libertà degli autori di violenza, se questa impedisce alle donne di realizzarsi».

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