L’Osservatorio per la parità di genere del Ministero della cultura, insediatosi un anno fa con decreto dell’allora ministro Dario Franceschini, ha prodotto il suo «Primo rapporto annuale». Composto di 62 pagine e diffuso tre giorni fa, si propone come un utile strumento al servizio delle istituzioni culturali, private e pubbliche, di cui, in questa prima fase, si registrano i dati relativi al «gender gap». Coordinato da Celeste Costantino, dell’Osservatorio fanno parte, tra gli altri, Cristina Comencini, Linda Laura Sabbadini, Souad Sbai, Ricardo Levi e altri. Con loro anche Flavia Barca, esperta di settori culturali e creativi, curatrice di un dossier sui gap di genere in questi ambiti.

Qual è la fotografia che emerge dal vostro studio? Come avete lavorato?
Il primo anno dell’Osservatorio ha puntato soprattutto su una fase di ascolto delle organizzazioni che, negli ultimi anni, con grande determinazione, hanno iniziato a combattere gli squilibri di genere anche identificando i numeri di questi divari e, quindi, producendo dati di settore. Il rapporto ospita queste importanti testimonianze assieme ai dati prodotti dalla Direzione cinema del Mic che è da tempo all’avanguardia nella produzione di informazioni in questo ambito. Ad esempio, scopriamo che le donne registe non superano l’11% del totale e che sono pagate meno degli uomini. Che la presenza delle donne registe nei principali teatri italiani non supera il 21% (dati Amleta). E che le statue realizzate da donne nello spazio pubblico nazionale sono meno del 10% tra quelle censite (dati Mi riconosci). Dal prossimo anno, con il supporto di Istat, si avvierà un processo sistematico di analisi dei diversi comparti, con una metodologia in fase di definizione.

Lei ha un’attività ventennale di ricerca e consulenza per aziende pubbliche e private e ha diretto l’Istituto di economia dei media, oltre all’assessorato alla cultura del comune di Roma (2013-2014). Secondo la sua esperienza, come si è trasformato in questi anni lo scenario del «gender gap»?
È in atto un processo importante e positivo, che ha le radici nelle grandi battaglie del novecento ma ha subito una forte accelerazione con il movimento Me Too, un processo di consapevolezza e crescente trasparenza delle diseguaglianze. I numeri dello squilibrio sono ancora drammatici: ce lo mostrano i report del World Economic Forum in ambito internazionale, ce lo mostrano nel settore culturale i documenti della Commissione europea (un dato tra i mille: solo il 13,7% degli artisti e artiste viventi rappresentat* nelle principali gallerie d’arte in Europa e in Nord America sono donne e solo il 3-5% delle opere d’arte presenti nelle principali collezioni permanenti dei musei europei e statunitensi sono state realizzate da donne), lo vediamo con mano in Italia nei dati disponibili sul mercato del lavoro, peggiorato dalla pandemia. Però la spinta è forte, le organizzazioni si stanno muovendo e le nuove generazioni sono molto più consapevoli. Sono anni critici di cambiamento.

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In che modo questi dati raccolti possono diventare fertili per un discorso che sia politico e di costruzioni di nuovi immaginari?
I dati hanno un potere enorme. Non solo perché la carenza di dati ostacola la piena comprensione dei fenomeni e la definizione degli opportuni rimedi, mediante l’attivazione di politiche pubbliche mirate ed efficaci e l’individuazione di indicatori funzionali a monitorarle e valutarle. I dati e la ricerca hanno un ruolo fondamentale anche per incidere sulla consapevolezza collettiva.
È un processo che avviene anche nella fase di produzione del dato. È un punto centrale nell’azione che può svolgere il Ministero della cultura. Se imponesse, ad esempio, a tutti gli istituti culturali pubblici di fornire all’Osservatorio i propri dati di genere, spingerebbe quelle organizzazioni a indagare se stesse con trasparenza e questo genererebbe un profondo cambiamento nel momento in cui avviene.

Lei è una delle curatrici del mensile di approfondimento «LettureLente» per la rivista «Agcult». Tra i progetti, avete lavorato su un dossier sull’equità di genere nei e attraverso i settori culturali e creativi. Che cosa è emerso?
Intanto l’enorme portata e complessità del tema. Sono molti ed urgenti i livelli della filiera su cui occorre intervenire – la formazione scolastica, quella specialistica, l’ideazione creativa (lo spazio per le donne di pensare, lo spazio per le idee), la produzione, la distribuzione (su 111 tra le principali organizzazioni culturali in Italia l’82,35% è guidata da uomini, anziani) ecc. E molti i nodi da affrontare, dalla rottura del tetto di vetro, alla co-gestione dei tempi di cura, agli stereotipi, al pay-gap a, non ultimo, il tema del potere al femminile, una questione delicata ancora tutta da dipanare. Ma il dossier ha mostrato anche la ricchezza di idee, interventi, progetti, che donne – e uomini – stanno portando avanti in questo ambito. Una forza imponente che cambierà radicalmente questo paese nei prossimi anni. Sono ottimista.