Fra i contenziosi ideologici che in questi giorni agitano l’America c’è posto anche per la storia di Joseph Kennedy, coach della squadra di football di un liceo di provincia vicino Seattle venuto a trovarsi al centro dell’ultima controversia all’esame della Corte suprema.

Parrebbe a prima vista che il supremo tribunale costituzionale avrebbe da aggiudicare argomenti di altra levatura con le leggi elettorali in corso di modifica in dozzine di stati e i raid nelle biblioteche scolastiche ordinate da altrettanti governatori conservatori per purgarle di testi «immorali e anti americani».

TUTTAVIA L’EX MARINE pensionato che ha preso l’incarico alla sua vecchia scuola dopo aver visto un telefilm religioso in cui una squadra vince il campionato dopo aver invocato l’aiuto dell’Onnipotente, è assurto agli onori della cronaca proprio perché il suo caso corrisponde alla narrazione di persecuzione avanzata dalle destre.

Ispirato dal film, il 52enne devoto allenatore al termine di ogni partita usava riunire i suoi ragazzi a centrocampo per raccogliersi in un minuto di preghiera. Non è dato sapere se queste siano valse uno scudetto nel campionato del 2015 poiché prima che finisse l’anno scolastico il distretto scolastico di Bremerton aveva licenziato Kennedy per atto improprio in quanto interpretabile come implicita sanzione di cerimonia religiosa da parte della scuola pubblica.

La dottrina costituzionale Usa – a differenza di quella italiana – preclude puntigliosamente l’esposizione di croci e simboli religiosi in luoghi pubblici o edifici statali. Le scuole, in quanto istituzioni pubbliche, sono ugualmente tenute a preservare una neutralità laica. Almeno così pensavano gli amministratori scolastici prima che Kennedy (nel frattempo diventato una piccola celebrità negli ambienti politici conservatori che hanno vigorosamente deprecato la sua «persecuzione religiosa») innescasse i ricorsi che hanno portato il caso al vaglio della Corte costituzionale.

IN AMERICA il massimo organo giuridico ha il potere di opinare in modo vincolante su politiche sociali, diritti civili e politiche amministrative. Quello dell’espressione religiosa in luogo pubblico è un argomento che da sempre tormenta la giurisprudenza di una nazione emersa dagli impulsi apparentemente incompatibili dell’integralismo degli originali coloni puritani e le affinità filosofiche dei padri costituenti per l’illuminismo.

Il paese, la cui valuta reca la dicitura «In God we trust» su ogni banconota, ha iscritte nella costituzione sia la assoluta libertà di culto che il ripudio di una religione di Stato. Lo stesso Thomas Jefferson ha stilato testi in cui invoca inequivocabilmente la separazione inviolabile fra chiese e uno Stato che deve rimanere neutrale rispetto alle diverse professioni religiose.

Ovviamente le scuole sono da sempre luogo principale di scontro, ma le sentenze costituzionali hanno generalmente sostenuto la dottrina, scoraggiando ad esempio le invocazioni religiose in cerimonie ufficiali come quelle di laurea per evitare l’«indottrinamento» degli studenti e garantire la non-discriminazione nei confronti di altre fedi. Rimane il pledge of allegiance, giuramento a Dio e alla bandiera tutt’ora recitato ogni nelle scuole pubbliche, ma che non può essere obbligatoriamente imposto.

ALLO STESO TEMPO il fervore religioso diffuso nel paese e la valenza politica che vi è sempre più strettamente connessa, fanno sì che la questione si riproponga regolarmente al vaglio dei tribunali. Ora con il caso Kennedy v. Bremerton lo sarà sullo sfondo di una forte ondata di attivismo conservatore.

La quarantennale radicalizzazione della destra innescata dal reaganismo d’altronde si fonda proprio sull’alleanza strategica stretta da Reagan con settori del cristianesimo tradizionalista e reazionario su temi come aborto e opposizione ai diritti Lgbtq.

La deriva teocon è sfociata dapprima nel tea party, trovando poi un’apoteosi nel populismo trumpista. E il progetto repubblicano per consolidare i consensi del white christian nationalism ha fatto perno sull’acquisire il controllo della Corte suprema, anche attraverso il boicottaggio nel 2016 di un togato la cui nomina spettava a Obama (seguita da tre nomine consecutive toccate a Trump).

Con una composizione conservatrice di 6-3, la sentenza a favore del devoto allenatore è virtualmente assicurata – un fatto apparentemente minore che illustra però un’inedita volontà di contravvenire a un secolo di giurisprudenza vincolante in materia di separazione fra Stato e religione, e che dà la misura della prorompente sterzata conservatrice di portata epocale, dalla forte matrice religiosa.

E CONFERMA il ruolo della Corte suprema come timone della svolta nazional populista. Lo sbilanciamento conservatore avrà un peso abnorme nell’invalidare l’agenda Biden (dalla riforma elettorale alle politiche ambientali) e, in caso di (probabili) dispute legali riguardo le elezioni mid-term di quest’anno e le prossime presidenziali del 2024, potrebbe essere proprio la Corte suprema a ricoprire un ruolo decisivo nell’assegnarne l’esito finale.

Intanto il tribunale si appresta, in tutta probabilità entro l’estate, ad abolire il diritto all’aborto sostenuto da mezzo secolo di sentenze, smarcando ulteriormente gli Stati uniti dalle democrazie liberali occidentali e avvicinandoli al modello Visegrad.