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Con il ddl sicurezza il codice penale fa un salto nel passato

Ad una manifestazione di Extintion Rebellion a Roma foto LaPresseAd una manifestazione di Extintion Rebellion a Roma foto LaPresse

Ddl sicurezza Si rischia il ritorno a una condizione dei rapporti tra Stato e individui che ci eravamo illusi di avere archiviato. Alcune nuove delle disposizioni sono campanelli d’allarme

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 1 novembre 2024

L’espressione “fascista”, riferita a riforme e altre iniziative della maggioranza al governo, dovrebbe essere utilizzata con cautela, non foss’altro perché si tratta pur sempre (per ora) di provvedimenti adottati nella cornice di uno stato democratico di diritto. Non è così per il codice penale. Entrato in vigore nel cuore del ventennio, il codice che porta la firma del ministro Alfredo Rocco riflette ancora alcune caratteristiche tipiche di un regime autoritario: pene detentive estremamente severe, misure di sicurezza, reati di opinione, forme di responsabilità oggettiva e via dicendo.

La sopravvivenza del codice Rocco alla caduta del fascismo e all’avvento della Costituzione si spiega non solo in ragione del fallimento dei progetti di nuova codificazione, ma anche e soprattutto alla luce di puntuali interventi della Corte costituzionale (si pensi alla cancellazione del reato di sciopero), all’attività interpretativa della magistratura ordinaria, nonché alle riforme che, dal dopoguerra a oggi, ne hanno via via smussati gli angoli più appuntiti. Tuttavia, riforme come quella racchiusa nel “ddl sicurezza” vanno nella direzione diametralmente opposta, riportando pericolosamente le lancette del tempo verso una condizione dei rapporti tra Stato e individui che ci eravamo forse illusi di avere definitivamente archiviato.

Alcune delle nuove disposizioni rappresentano veri e propri campanelli d’allarme di questa deriva. Si pensi al nuovo reato di lesioni lievi o lievissime ad agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza: condotte finora sanzionate con la reclusione da sei mesi a tre anni verranno punite con la reclusione da due a cinque anni, ossia una pena che consentirà di applicare la custodia cautelare in carcere durante le indagini e l’eventuale processo. Ma non è tutto. Se il reato verrà commesso durante manifestazioni in luogo pubblico, il sospettato potrà essere arrestato non solo se colto in flagranza, come accade di regola per intuitive esigenze di garanzia, ma anche nelle 48 ore successive, laddove sia identificato sulla base di video o fotografie (“flagranza differita”). Si tratta di novità che tendono a ripristinare quella “concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini” che la Corte costituzionale ha già avuto modo di censurare nella sentenza sull’oltraggio a pubblico ufficiale del 1994.

Nella stessa direzione va anche il rafforzamento dell’apparato sanzionatorio dei reati di violenza o resistenza a pubblico ufficiale. Se la legge entrerà in vigore, alle sanzioni scaturite dalla penna, tutt’altro che leggera, di Alfredo Rocco, si affiancherà una circostanza aggravante applicabile nel caso in cui il reato venga commesso contro agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, nonché nel caso in cui il reato sia commesso al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o un’infrastruttura strategica. Sorgono, anche qui, seri dubbi sulla legittimità costituzionale della riforma, alla luce del principio di proporzionalità della pena.

All’obiezione per cui tali novità sarebbero destinate a colpire soltanto gli autori di condotte violente (obiezione che in ogni caso non restituirebbe legittimità costituzionale a disposizioni che ne sono prive), è facile rispondere che l’impianto generale del ddl rivela finalità repressive ben più estese: la criminalizzazione del blocco stradale e quella della resistenza passiva in caso di rivolte nelle carceri e nei centri di trattenimento per migranti (non solo i Cpr), luoghi dove le condizioni di vita risultano spesso oggettivamente intollerabili, sono infatti pensate proprio per colpire anche coloro che protestano, o manifestano un disagio, in maniera risoluta ma pacifica.

Di segno diametralmente opposto è il messaggio rivolto alle forze dell’ordine, alle quali la riforma concede il diritto di portare le armi da fuoco, senza licenza, quando non sono in servizio; un beneficio economico a copertura delle spese legali per i fatti inerenti all’esercizio delle funzioni (salvo rivalsa in caso di condanna per reato doloso); e al contempo si limita a prevedere la facoltà (non l’obbligo) di indossare le bodycam (non vi è traccia, invece, del codice identificativo sulle divise, di cui Amnesty International invoca da anni l’introduzione).

Posto che difficilmente si assisterà, negli ultimi passaggi parlamentari, a significative modifiche, una volta che il pacchetto sicurezza sarà in vigore la parola passerà inevitabilmente agli avvocati difensori e alla giurisdizione, ordinaria e costituzionale, ai quali spetterà il compito di riportare nei binari della Costituzione un codice penale il cui volto umano, certo ancora imperfetto, rischia di essere presto sfregiato.

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