La piramide dell’accademia si basa soprattutto sul lavoro dei ricercatori precari che oggi si trovano di fronte a un paradosso creato dal governo Draghi: una riforma intende migliorare le condizioni in cui si lavora negli atenei, ma finirà per espellerne buona parte dall’accademia. Per questo ieri nella facoltà di ingegneria della «Sapienza» di Roma assegnisti di ricerca, dottorandi, studenti e anche qualche docente hanno dato vita a un’assemblea nazionale a cui, tra presenza e online, hanno partecipato oltre trecento persone. A convocarla è il neonato coordinamento di ricercatrici e ricercatori precari «ReStrike».

La riforma è contenuta nel decreto «Pnrr 2» convertito in legge la scorsa estate. Prevede di sostituire gli attuali assegni di ricerca da 1500 euro al mese con i «contratti di ricerca» a tempo determinato. Avranno durata minima biennale e le garanzie contrattuali e previdenziali del lavoro dipendente e la retribuzione salirà a 1600 euro netti. «Fin qui tutto bene – spiega Stefano Simoncini, assegnista alla Sapienza e tra i fondatori di ReStrike – ma un assegno di ricerca costa circa 24 mila euro all’ateneo, mentre per un contratto di ricerca dovrà stanziarne 37-38 mila l’anno per almeno un biennio, un budget triplo».

Il Mef peraltro ha imposto per legge che per i nuovi contratti le università non spendano più di quanto già facevano per gli assegni. «Il maggiore costo si trasformerà dunque in un forte taglio dei precari», conclude Simoncini. «I numeri sono impietosi» scrive su Twitter anche Michele Tiraboschi, studioso del mercato del lavoro ed erede accademico di Marco Biagi, non esattamente un fanatico del posto fisso: «Un terzo dei 15.000 assegnisti va verso l’espulsione dall’Università, molti altri saranno declassati su schemi di lavoro occasionale».

Michele Tiraboschi
Un terzo dei 15.000 assegnisti va verso l’espulsione dall’Università, molti altri saranno declassati su schemi di lavoro occasionale

Come le docenze a contratto con cui le università alimentano la proliferazione dell’«offerta formativa». «Chiamiamole con il loro nome: volontariato» ironizza Francesco Raparelli, assegnista a Salerno. «Bisogna fissare criteri stringenti per capire dove sono davvero necessarie» aggiunge Cecilia, in collegamento da Genova.

L’assemblea chiede che il governo destini più fondi per la riforma, con un aumento del finanziamento pubblico per le università pari a 1,5 miliardi di euro per garantire che ogni assegno sia trasformato nel nuovo contratto. Una proposta analoga era già stata contenuta nel «piano Amaldi» sostenuto da alcuni dei più importanti scienziati italiani, compreso il Nobel Giorgio Parisi, ma ignorata dal governo Draghi. ReStrike, inoltre, punta a 5 mila assunzioni annuali per riequilibrare il rapporto tra docenti «veri» e studenti. «Oggi è di 1 a 20, il più basso d’Europa» spiega Simoncini «e questo è il risultato della riforma Gelmini del 2008». Da allora, associati e ordinari sono diminuiti del 26% mentre i ricercatori precari sono aumentati del 109%.

All’assemblea si fanno vedere anche le deputate Anna Laura Orrico (M5S) e Elisabetta Piccolotti (Verdi-Sinistra). A nessuno sfugge che la destra al governo oggi è la stessa della riforma Gelmini. «Dall’opposizione porteremo queste proposte nella discussione sulla legge di Bilancio» è l’impegno della rosso-verde. Per evitare la fine del piano Amaldi, l’assemblea fissa mobilitazioni a stretto giro. Il 18 novembre, flash mob e presidi uniranno precarie e precari della ricerca alle mobilitazioni studentesche già fissate. «Strike» però in inglese significa «sciopero»: verso lo stop della ricerca precaria? «La discussione è aperta» racconta Raparelli. «Ma a dicembre ci arriveremo».