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«Con carabinieri e polizia lavoriamo sugli allievi, per una cultura del diritto»

«Con carabinieri e polizia lavoriamo sugli allievi, per una cultura del diritto»Daniela De Robert – Ansa

Intervista Parla Daniela De Robert, numero due del Collegio del Garante dei diritti delle persone private di libertà personale: «Le camere di sicurezza sono luoghi oscuri. Ma l’Arma ci ha chiesto aiuto»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 16 giugno 2023

Riferendosi alle violenze sugli arrestati da parte degli uomini della Volante di Verona, e ad altri fatti simili, Mauro Palma ha parlato di «una cultura non leggibile con il paradigma auto consolatorio delle “mele marce”» che, sia pure «minoritaria», alberga «in settori di operatori di Polizia che percepiscono la persona fermata, arrestata o comunque detenuta, come nemico da sconfiggere».

Daniela De Robert, numero due del collegio del Garante nazionale dei detenuti, sono parole forti e chiare.

Sono fatti che non possono più essere ricondotti a singoli casi e persone, ma sintomo di una cultura che attraversa alcune aree delle forze di polizia e che considera la persona fermata o trattenuta un nemico da annientare, umiliare e su cui accanirsi. Per questo dal 2021 avevamo sollecitato le forze dell’ordine, chiedendo e ottenendo di incontrare tutti i vertici. Con loro abbiamo ragionato ad un percorso di lavoro concentrando l’attenzione sul tema della cultura.

Tra i tanti dati contenuti nel rapporto si evidenzia il numero di persone transitate nelle camere di sicurezza dal 2016 ad oggi. Si nota che dal 2020 sono di più le persone che transitano nelle camere di sicurezza della polizia che in quelle dei carabinieri, mentre prima accadeva il contrario. C’è un motivo per questo?

Il passaggio nelle camere di sicurezza spesso viene deciso dal magistrato, non dalle forze dell’ordine. Un motivo possiamo trovarlo nel fatto che se andiamo a vedere il numero di camere di sicurezza disponibili in Italia, notiamo che quelle agibili per la polizia sono passate dalle 327 del 2016 alle 318 del 2023, e per i carabinieri da 1068 a 819 di oggi .

Nel 2022 avete cominciato un lavoro “culturale” con i vari corpi, come sta andando?

La nostra raccomandazione è stata accolta, ed ora stiamo lavorando con tutti i corpi anche se solo con i Carabinieri siamo entrati completamente nei corsi di formazione, a tutti i livelli. Il primo protocollo è stato firmato con l’Arma il 17 marzo 2022 e rinnovato successivamente. Nei corsi spieghiamo cosa è la figura del Garante e perché è necessario, e affrontiamo i temi dei diritti, della modalità di intervento in situazioni difficili, della de-escalation, della proporzionalità e dell’individualità delle misure di contenzione, e così via. Con i Carabinieri abbiamo fatto formazione per tutti gli allievi dell’ultimo corso. Palma ha incontrato tutti i responsabili provinciali dell’arma, girando per l’Italia. Il problema delle forze di polizia adesso è che i giovani che entrano in questi corpi spesso vengono dall’esercito, dove sono formati all’idea del nemico. Con la Polizia di Stato e la Penitenziaria, invece, abbiamo fatto diverse attività di formazione mirata del personale appena entrato in servizio, ma siamo più indietro.

Le camere di sicurezza sono state a volte teatro di violenze e torture, pensiamo solo a Stefano Cucchi… Sono luoghi opachi?

Sono sempre stati al centro dell’attenzione perché a differenza del carcere, dove entrano volontari, sanitari, insegnanti, etc, nelle camere di sicurezza non c’è mai uno sguardo esterno. Direi perciò che più che opaco è proprio un luogo buio. Ed è il primo posto in cui la persona si ritrova privata della libertà, perciò in un momento estremamente difficile, in cui la persona può avere reazioni violente. I carabinieri su questi temi sono stati più che aperti: hanno chiesto aiuto. Hanno voluto che lavorassimo insieme perché, hanno detto, sappiamo che c’è una situazione che richiede uno sguardo esterno, oltre che interno.

Avete messo a punto un Vademecum per le forze di polizia in cui spiegate anche cosa sono le “opzioni non letali”, dette anche «less than letal option». Come è stato accolto?

Molto bene: è stato stampato in 15 mila copie, distribuito a tutti gli allievi da Carabinieri, Polizia e Guardia di finanza, diffuso in tutte le scuole e inviato in tutti i presidi territoriali. È uno strumento di diffusione di una cultura diversa. Inaspettatamente, ne hanno chieste altre copie e abbiamo dovuto ristamparlo, malgrado sia scaricabile anche sugli intranet di tutte le forze di polizia.

Da dove viene, a cosa è dovuta quella cultura della vendetta e della sopraffazione che ancora alberga in alcuni settori delle forze di polizia?

È una cultura che si respira anche all’esterno. E un pensiero diffuso viene assorbito subito, da queste forze. Se i responsabili istituzionali affermano che chi delinque deve marcire in carcere, può succedere che qualcuno si senta spalleggiato da fuori e dall’alto.

Sui codici identificativi c’è ancora molta resistenza, vero?

Da parte dei vertici non direi, tant’è che lavoriamo insieme sulla formazione e il Vademecum ci è stato richiesto da tutti. È chiaro che non c’è l’abitudine ad essere controllati. All’inizio, quando arrivava il Garante in una camera di sicurezza, c’era sconcerto. Ma è un problema che si sta abbastanza superando.

I sindacati sembrano disponibili alla bodycam. Basta?

Può essere un primo passo. Dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere abbiamo inviato all’allora ministra Cartabia tre raccomandazioni, una delle quali riguardava proprio i codici identificativi degli armamenti – non delle persone -, riconducibili poi attraverso un registro interno all’agente che le ha in dotazione. Questa raccomandazione – siamo nell’ambito della soft low, dove il metodo di approccio è la trattativa – non venne accettata dal ministero di Giustizia che avrebbe voluto prendere una tale decisione non solo per la Polizia penitenziaria ma in sede di coordinamento interforze. Per noi è un punto importantissimo perché, ad esempio, sulle violenze nel carcere di Melfi il giudice ha riconosciuto tutti i fatti delittuosi commessi sui detenuti ma non ha potuto procedere per l’impossibilità di individuare gli agenti colpevoli. Importantissimo perché il casco, da strumento di difesa, non può – mi sembra evidente – diventare strumento di occultamento.

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