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Come siamo arrivati al nostro campo di concentramento

L'hotspot destinato alle procedure di ingresso dei migranti nel porto di Shengjin, in AlbaniaL'hotspot destinato alle procedure di ingresso dei migranti nel porto di Shengjin, in Albania – foto Ansa

Il consenso a Meloni Qualche giorno fa ero stipata in un autobus di linea e al semaforo di un grande incrocio c’erano dei ragazzi che vendevano fazzoletti, o ti proponevano di lavare dei vetri. […]

Pubblicato circa 8 ore faEdizione del 15 ottobre 2024

Qualche giorno fa ero stipata in un autobus di linea e al semaforo di un grande incrocio c’erano dei ragazzi che vendevano fazzoletti, o ti proponevano di lavare dei vetri. E il conducente ha detto «ah qui si è aperto un centro commerciale». Allora io lo so che non si parla al conducente ma gli ho riposto.

Come rispondo da una quindicina d’anni quando voglio chiudere rapidamente la questione, cioè da quando lo sentii dire a una vecchietta. Cito sempre quella vecchietta e lei disse: «Chissà che croci devono avere nei paesi loro, per venire qui da noi a dormire in terra». In genere questa frase zittisce rapidamente i razzisti, i fascisti, gli arroganti, i vili, perché è semplice da capire.

Stavolta qualcosa però non ha funzionato e il conducente ha detto non sono d’accordo e ha cominciato a parlare un buon italiano, mi ha detto che la questione va regolamentata. Per non farsi dare del razzista mi ha detto che sua madre, quando lui era piccino, aveva ospitato per sette anni un bambino dell’Africa subsahariana, a casa loro, come un fratello. Per non farsi dare dell’ignorante mi ha detto che sua sorella fino a maggio di quest’anno ha lavorato in un famoso hotspot italiano. Per non farsi dare del fascista ha detto io certo non sono mai stato di destra ma la questione va regolamentata.

Allora, per continuare l’amarcord, anche io gli ho raccontato che avevo una prozia che votava Msi ma che calava due porzioni di pasta in più, tutti i giorni, per dei ragazzi esattamente come quelli che avevamo incontrato al semaforo, perché era cattolica. E poi una notte aveva scoperto che un senza fissa dimora dormiva nella sua auto e gli aveva fatto trovare un cuscino e una coperta.

Insomma io ho conosciuto quell’italiano di cui Giorgia Meloni rivendica il mandato. Guida un autobus di linea, parla bene italiano e sua madre era una donna piena di umanità. Nonostante quella donna gli avesse insegnato che se c’è un bambino che ha bisogno di una casa e si possiede una casa, si ospita quel bambino, perché non c’è differenza ab origine tra le persone, lui quell’analogia ora non la vedeva più. Si era perduta, opacizzata, e diceva cose odiose contro altri esseri umani.

Cioè, ho avuto la sensazione – ma io non sono un’analista politica, è stata solo un’idea da autobus di linea – che questi italiani che hanno dato mandato a Giorgia Meloni per costruire il nostro primo campo di concentramento extraterritoriale se li sono nutriti proprio loro, o sono cresciuti assieme, ci hanno messo una ventina d’anni – cosa è successo in questi ultimi vent’anni? – e hanno creato gli italiani che avranno piacere a vedere come è turrito il campo di Gjader.

Ora noi stiamo qui sgomenti a guardare queste due teorie di muri grigi invalicabili, con le torri d’avvistamento e le luci issate su alti pali, addossate le mura a una parete montuosa brulla, arida, dove non può crescere nulla, e dentro una miriade di container, ciascuno con quattro lettini a castello, dove resteranno in attesa di giudizio, come anime in purgatorio, quelle persone che chiedono a noi la carità al semaforo, e possiamo dire tutto quello che vogliamo sull’orrore che li attende, sulla disperazione, sull’arzigogolo burocratico perverso che li condurrà lì. Ma il punto, credo, è che quel campo di concentramento ha il sorriso di Giorgia Meloni mentre stringe le mani di Edi Rama, e gli occhi di un conducente di autobus di linea in un giorno qualunque.

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