Come si costruisce una sconfitta. Tramonta Burlando, Lella ciao
Liguria Claudio Montaldo, il vice presidente che ha votato Pd e Pastorino: «Spero che il mio partito impari la lezione e non cerchi solo alibi»
Liguria Claudio Montaldo, il vice presidente che ha votato Pd e Pastorino: «Spero che il mio partito impari la lezione e non cerchi solo alibi»
Genova. Morte per avvelenamento, questo è il referto. In Liguria la classe dirigente del Pd si è suicidata così. Marginale, anzi inutile, sostenere che quella di Matteo Renzi resta la prima forza politica della regione. Chi governa a Roma, e qui ha governato per 10 anni, è sceso dal 29,88% al 24,22%. Chi era stato eletto 5 anni fa aveva raccolto con la coalizione il 55% dei consensi; più del doppio rispetto al 25 racimolato tre giorni fa da chi è stato sconfitto. Oltre ai numeri per capire cosa è accaduto basta un flash: l’inespugnabile Liguria è stata espugnata dall’armata Brancaleone guidata dall’ultimo attendente di Berlusconi, tal Giovanni Toti.
Tutto questo pandemonio non è successo nell’Ohio de noantri e non è neppure vero che è tutta colpa di un’improvvisa resurrezione della sinistra dei Tafazzi. La Liguria, alla fine, è solo la regione dei traslochi. Dove governerà uno che per adempiere al mandato dovrà traslocare da un’altra regione, la Lombardia. Ha battuto una democratica della penultima Leopolda. Una signora che ha traslocato da una fazione all’altra del Pd. Ottenendo caparbiamente un unico obiettivo: un’inattesa sconfitta.
Cartoline del giorno dopo. La più infelice è Raffaella Paita, la sconfitta. Il più infelice è Giovanni Toti, il vincitore. Felice di nome fa Rossello di cognome, vive e lavora a Savona, insegna comunicazione per l’Università di Genova. E’ stato tra gli scopritori del suo allievo Fabio Fazio, è stato autore di Quelli che il Calcio e a modo suo ha fatto una piccola rivoluzione in tv. Felice (di nome) la mattina del voto è garrulo. Confida: «Certo che voto per la Paita, perché rappresenta il Pd di Renzi che è uno dei migliori politici della storia italiana, al pari di Andreotti e Moro. Io voglio vincere per andare al tavolo dei padroni e trattare i diritti dei lavoratori, sono stufo di questa sinistra “tafazzi”, basta!».
Tafazzi, per l’infelice Paita, adesso si chiama Luca Pastorino, era il candidato di Rete a Sinistra, l’uomo sceso in campo dopo lo strappo ligure di Sergio Cofferati, è uscito dal Pd quando si è candidato, lo ha fatto prima del suo amico, il capocordata Pippo Civati. Pastorino è stato eletto e resta deputato, sindaco del comune di Bogliasco (levante ligure), non entrerà in consiglio regionale, ma ha raccolto il 9,5%. «Grazie al quale i cinici Cofferati-Civati-Pastorino hanno consegnato la Liguria alla destra di Toti e di Salvini», fa sapere nella nottata di domenica Paita, senza dire una parola, ma vergando un comunicato che è un bastimento carico di rancore. No, stavolta «Lella» non twitta più, regala l’ultimo cinguettio circa un’ora prima della chiusura delle urne. Quando @Toolnonow (nome in codice) le augura «buona fortuna». Lei, solerte, risponde «crepi il lupo». Cinque ore più tardi (@mauro parodi3 consegnerà alla rete un tweet definitivo: «Stavolta ha vinto il lupo». Ma, occhio e croce, con tutto questo arsenico in giro, in Liguria schiatterebbe anche il lupo.
E’ finita così: Lella Paita, la candidata dell’intramontabile governatore Claudio Burlando, doveva vincere a tutti i costi. E ha preso una batosta storica. Toti ha vinto, ma non voleva vincere. Ci sono un sacco di indizi che possono confermare il retroscena. Voleva perdere, perdere bene, ma perdere, il meglio possibile, rafforzare il suo ruolo di delfino (beluga) di Silvio Berlusconi, fare il consigliere politico, l’eurodeputato che è pagato benone e soprattutto lasciare a Milano la sua residenza. Perché lui è un toscano emigrato a Milano, in Liguria ha una casetta per le vacanze, tutto qui. E’ come eleggere governatore del Veneto un pescatore di Pantelleria. In tutto questo bordello Toti governerà per i prossimi 5 anni, ruolo che non ha mai ricoperto e al quale neppure si è preparato. In campagna elettorale qualche solerte consigliere uscente di Forza Italia gli aveva messo in agenda alcuni incontri con i principali dirigenti regionali. Bene, il neo governatore non si è presentato a nessun appuntamento. Dovrà governare una regione che non conosce. Usando meccanismi che non conosce: il futuro appare radioso.
E, ancora, muore per avvelenamento la classe dirigente del Pd ligure e rischia l’avvelenamento il Pd di Matteo Renzi. Claudio Montaldo sta raccogliendo le ultime lettere dalla scrivania del suo ufficio. Sulla porta c’è la targa assessore alla Sanità e vice presidente della giunta regionale. «L’ufficio l’ho già svuotato. Mi restavano da portare via solo le lettere di alcuni compagni, le ho tenute qui fino all’ultimo, mi facevano una certa compagnia». Montaldo, per gli sconfitti Burlando e Paita, è uno dei traditori, forse il peggiore, forse no. In coda alla campagna elettorale ha buttato nella mischia la Lettera dei Duecento, un appello sottoscritto da numerosi dirigenti del Pd che invitavano al voto disgiunto. O era voto di coscienza, Montaldo? «Diciamo tutte e due le cose: era un invito a votare la lista del Pd, scegliendo però Pastorino e non una candidata scelta con superficialità e arroganza dal partito. Un candidato unitario si poteva trovare, certo, ma non con i metodi imposti da chi per quattro giorni sarà ancora il mio presidente, insomma Burlando». E ora? «Adesso si continua a sbagliare dicendo che la sconfitta è colpa nostra e di Pastorino. Così si invertono le cause con gli effetti. Negli ultimi mesi, ma forse anche di più, il gruppo dirigente locale ha perso alcuni valori fondamentali della sinistra e i nostri militanti non ci hanno più seguito. Per rosicchiare voti al centrodestra si sono imbarcati decadenti uomini del centrodestra, magari chi in Liguria aveva fatto il bello e il cattivo tempo sotto la protezione dell’ex ministro Scajola. Poi il capolavoro: siamo partiti con una presunta alleanza dall’Udc di Casini a Rifondazione, siamo arrivati soli. Ora? Io vado in pensione, ma spero che il mio partito impari la lezioni e non cerchi solo alibi».
Morte per avvelenamento, chi non ha un alibi sta cercando di costruirselo in fretta. Lella Paita riappare lunedì pomeriggio, provata, assai. Non cambia versione: «Ho avuto un anno orribile, con attacchi quotidiani dai giornali di destra e da quelli presunti di sinistra» Il resto? «Pastorino ha fatto un disastro». Il discorso della sconfitta è di elevato spessore politico. Con un acuto tra le righe: un attacco pure al sindaco di Genova, Marco Doria, alleato fedele nell’interminabile campagna elettorale: «A Genova gli elettori ci hanno fatto pagare i problemi legali alla sicurezza». La colpa? Del sindaco, ovviamente. Spessore e stile, Lella ciao. Pare di sentir parlare uno dei vincitori, il leghista Salvini. Lui sì, qui è il vero vincitore, insieme all’M5S. La Lega ha conquistato il 20,25, il record di consiglieri: 5 eletti, 2 dal listino di Toti. «In una regione dove non abbiamo mai avuto una tradizione storica forte», insinua Salvini in una delle sue mille interpretazioni radiofoniche. Bravo Salvini, conosce come l’altro Matteo i segreti della cultura dell’oblio. Dimentica che la Liguria era terra della Lega mai di lotta, sempre di governo. Dimentica che questa era la base di Francesco Belsito, il tesoriere di quello scandalo giudiziario che ha spedito fuoristrada il Carroccio di Bossi.
Che brutto clima, che brutte facce, come fai a non essere triste. Fulvio Molfino, 65 anni, genovese dalla delegazione di Pontedecimo, insegnante in pensione, già Proletario in Divisa, entrato trentenne nel Pci, mai entrato nel Pd: «Ho votato Pastorino presidente e la lista del Pd, disgiunto. So che a sinistra abbiamo perso, ma mi chiedo anche perché, io almeno lo faccio. Il Pd ha proposto una candidata che non conosceva nessuno, solo perché era la diretta continuazione del governo Burlando. Perché non sono andati a parlare nei circoli, con i compagni e non si sono accontentati di provare a rosicchiare voti alla destra, hanno fatto prima, hanno parlato e coinvolto nei loro giochi di potere uomini di destra. Perché hanno pensato che il vecchio compagno non potesse capire le loro grandi e moderne idee, invece le capirebbe benissimo, se gli venissero spiegate, se fossero grandi e innovative. Perché sono stati arroganti, dimenticando invece che i comunisti sanno prima di tutto ascoltare».
L’arroganza di far passare per renziana Paita, già bersaniana. Esatto, come un’altra sconfitta, più illustre, Alessandra Moretti, castigata in Veneto, ex portavoce di Bersani, passata con il leader Matteo. Il trasformismo non sempre paga. L’ultimo capitolo parla del declino definitivo di Burlando, ex sindaco di Genova, ministro con Prodi, dieci anni da governatore. Aveva tessuto una fitta rete di rapporti politici con un altro ex potente della Liguria, Scajola, già deus ex machina di Forza Italia. E buoni rapporti Burlando ha conservato anche con Claudio Biasotti, onorevole, venditore di auto di lusso, pronto a votare con Fitto per poi tornare tra le braccia di babbo Silvio. Ora Biasotti si sente l’artefice della vittoria di Toti. Magari lo è, ma capite con chi ha perso questa sinistra? Un ultimo dubbio non tramonta mai: la colpa sarà mica di Burlando e della classe politica che ha allevato senza ammettere discussioni? Un vero disastro, ex governatore Claudio.
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