Come migliorare il “decreto Dignità”
Appello degli avvocati del lavoro Serve introdurre la causale anche nei primi 12 mesi, estendere il diritto di precedenza anche ai tempi determinati, cancellare la somministrazione a tempo indeterminato, togliere l'aparheid del contratto a tutele crescenti, reintrodurre la reintegra in caso di accertata ingiustificatezza del licenziamento
Appello degli avvocati del lavoro Serve introdurre la causale anche nei primi 12 mesi, estendere il diritto di precedenza anche ai tempi determinati, cancellare la somministrazione a tempo indeterminato, togliere l'aparheid del contratto a tutele crescenti, reintrodurre la reintegra in caso di accertata ingiustificatezza del licenziamento
La durezza dell’attacco subìto dal «decreto Dignità» (Dl 87/2018) sin dalla comparsa della sua bozza, con prospettati disastri per investimenti ed economia, ci induce ad intervenire, nella nostra veste di avvocati giuslavoristi quotidianamente impegnati nella difesa dei diritti dei lavoratori, per portare la nostra esperienza – prima ancora che il nostro punto di vista – attraverso una serena riflessione sulla reale portata dei provvedimenti.
Un indubbio riconoscimento: le modifiche prospettate hanno spostato il «baricentro» dall’interesse esclusivo per la flessibilità del lavoro (mainstream che ha caratterizzato tutta la legislazione degli ultimi 15-20 anni) all’interesse – anche – per la dignità di chi lavora, dando finalmente credito a quanti provavano a mettere in dubbio che le leggi del mercato dovessero essere le sole a dettare le regole, e conseguentemente determinare le condizioni di vita delle persone.
Poiché il ministro del Lavoro ha dichiarato la propria disponibilità ad apporre modifiche al «decreto» «nell’ottica del miglioramento», affermando di voler porre un argine solo rispetto ai tentativi di «annacquarlo», auspicando che le modifiche non riguardino la reintroduzione dei voucher, peraltro già espunti dall’ordinamento, ci sentiamo autorizzati a fornire i nostri consigli «tecnici» nella direzione di una più efficace e incisiva lotta al precariato.
Le “buone intenzioni” del decreto – che probabilmente ipotizza un uso dei primi 12 mesi di contratto “acausale” come periodo di prova – si scontrano con l’inveterata abitudine di tanti datori di lavoro di utilizzare questa forma contrattuale al solo scopo di «tenere sotto scacco» i propri dipendenti perennemente preoccupati dalla possibilità di perdere il lavoro allo scadere del primo termine utile. Per questa ragione è fondato il timore che decorso il primo anno – come ipotizzato da autorevoli consulenti aziendali – i datori di lavoro provvedano a una semplice sostituzione di un lavoratore con un altro.
Per questo motivo, per quanto «coraggiosa» e in controtendenza sia stata la scelta di contenere l’uso dei contratti acausali, per scongiurare il pericolo sopra ipotizzato (che trasformerebbe in beffa una soluzione finalizzata all’uscita dalla precarietà) si propongono due alternative: la prima, che avrebbe lo scopo di controllare che il contratto venga stipulato per effettive ragioni obiettive e temporanee, comporta la reintroduzione della causale sin dal primo contratto; la seconda, che salvaguarderebbe l’opzione di un primo contratto acausale di durata non superiore a 12 mesi, comporta l’estensione del diritto di precedenza in caso di nuove assunzioni non solo a tempo indeterminato (come previsto dal cosiddetto Jobs Act), ma anche a tempo determinato, com’è attualmente previsto per le sole lavoratrici madri e per i lavoratori stagionali, oltre che da una prassi assai conosciuta dalla contrattazione aziendale. Tecnicamente tale ultima disposizione sarebbe attuabile con la sola aggiunta delle parole «o determinato» al comma citato.
Inoltre dovrebbe essere chiaramente definito che il superamento della percentuale dei lavoratori a tempo determinato, attualmente punito solo con una irrisoria sanzione amministrativa, comporti come sanzione la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, oltre a un risarcimento del danno.
Andrebbe infine precisato che il contratto a termine deve essere sottoscritto e consegnato prima o contestualmente all’inizio della prestazione, pena la sua trasformazione in contratto a tempo indeterminato.
Anche per il contratto di somministrazione a tempo determinato si dovrebbe prevedere la causale a carattere temporaneo introdotta sin dal primo contratto.
Il contratto di somministrazione a tempo indeterminato dovrebbe essere abrogato, trattandosi di una forma di utilizzazione del lavoro «eversiva» non tanto perché precaria, ma perché disgiunge responsabilità ed impiego della prestazione lavorativa, anche quando questo costituisce un’esigenza stabile dell’impresa. Sarebbe, quantomeno, necessaria l’abolizione dell’ultima parte della norma del Jobs Act che autorizza la somministrazione a tempo indeterminato presso l’utilizzatore per i dipendenti assunti dall’agenzia di lavoro con rapporto di lavoro a tempo indeterminato. In realtà, così, si autorizza una intermediazione fraudolenta atteso che ogni rischio d’impresa viene scaricato esclusivamente sull’agenzia di lavoro, la quale, peraltro, usufruisce anche del beneficio di non essere soggetta alla legge 223 del 1991 in caso di chiusura o di licenziamenti collettivi.
Inoltre la somministrazione a tempo indeterminato, non essendo soggetta alla disciplina del contratto a termine, comporta che l’impiego della prestazione lavorativa a tempo indeterminato presso lo stesso utilizzatore non è neppure soggetta ai 36 mesi complessivi perché il Jobs Act parla soltanto di somministrazioni a tempo determinato. Anche sotto tale profilo l’impiego a tempo indeterminato della prestazione lavorativa presso l’utilizzatore permette lo sfruttamento dei lavoratori e la risoluzione del loro rapporto di lavoro senza alcun costo per l’utilizzatore e con costi irrisori per il somministratore
Sarebbe, infine, opportuno reintrodurre la fattispecie della somministrazione fraudolenta, cancellata dal Jobs Act. La disposizione abrogata consentiva non solo al lavoratore, ma anche agli istituti (Inps), di agire quando la somministrazione aveva la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo. Un modo efficace per fermare i noti fenomeni di dumping.
La Legge Fornero del 2012 era intervenuta a modifica dell’articolo 18 dello Statuto del lavoratori, fortemente limitando la possibilità di ottenere la reintegrazione sia in caso di licenziamento disciplinare che in caso di licenziamento economico.
Il Jobs Act, appena tre anni dopo, ha reso la reintegrazione una tutela assolutamente residuale per gli assunti dopo il 7 marzo 2015, riservandola ai soli licenziamenti nulli o discriminatori, escludendola del tutto per i licenziamenti cosiddetti “economici” (cioè individuali per giustificato motivo oggettivo ovvero collettivi per riduzione di personale) ed ammettendola, per quelli disciplinari, nell’esclusiva ipotesi di assoluta insussistenza del fatto “materiale” contestato al lavoratore, fatto che può essere anche di rilevanza disciplinare irrisoria (è infatti impedito al giudice di valutarne la sproporzione).
E’ assolutamente evidente che il regime sanzionatorio previsto dal Jobs Act non costituisce un valido deterrente per scoraggiare i licenziamenti ingiustificati: il contratto a tutele crescenti rappresenta infatti una forma di precariato a tempo indeterminato (una sorta di contratto a tempo «indeterminabile» come qualcuno lo ha definito) che condiziona libertà e dignità dei lavoratori per tutta la durata del rapporto, rendendo assai poco effettivi anche gli altri diritti riconosciuti dalla legge.
Le «tutele crescenti» tutelano chi licenzia ingiustamente più di chi viene ingiustamente licenziato: sarebbe conseguentemente auspicabile un intervento che elimini l’assurdo – e non giustificato, secondo criteri di uguaglianza e ragionevolezza – doppio regime di tutela tra vecchi e nuovi assunti.
È a nostro avviso necessario ribadire che la tutela della dignità dei lavoratori si garantisce attraverso la reintegra o la riammissione in servizio in caso di accertato abuso del recesso, perché è il solo modo per assicurare loro un ruolo produttivo nella società e non di mero assistenzialismo. L’unico strumento idoneo a conseguire questo risultato è ripristinare l’uguaglianza tra gli assunti prima del 07 marzo 2017 e gli assunti dopo il 07 marzo 2015, abrogando integralmente il Jobs Act.
Si rimane a disposizione per ogni necessario approfondimento e per una fattiva collaborazione, anche per la stesura di eventuali testi.
*Appello sottoscritto da oltre cento avvocati del lavoro
Alberto Piccinini – Avvocato Giuslavorista e socio fondatore nonché Presidente associazione Comma2
Anna Silvana Lamacchia – Avvocato Giuslavorista e Vice Presidente associazione Comma2
Velia Addonizio – Avvocata Giuslavorista e componente direttivo Comma2
Silvia Balestro – Avvocata Giuslavorista e componente direttivo Comma2
Mario Fezzi – Avvocato Giuslavorista e socio fondatore nonché componente direttivo Comma2
Stefania Mangione – Avvocata Giuslavorista e componente direttivo Comma2
Pierluigi Panici – Avvocato Giuslavorista e componente direttivo Comma2
Elena Poli – Avvocata Giuslavorista e componente direttivo Comma2
Giuliana Quattromini – Avvocata Giuslavorista e componente direttivo Comma2
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