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Colum McCann, esercizi di umiltà all’ascolto del terrore

Colum McCann, esercizi di umiltà all’ascolto del terroreFoto: History/Universal Images Group via Getty Images, 2015

Scrittori irlandesi Dismessi i panni del sofisticato narratore, Colum McCann presta la sua voce a Diane Foley, che ricostruisce la vita del figlio Jim, giornalista freelance decapitato dall’Isis: «Una madre», da Feltrinelli

Pubblicato 5 giorni faEdizione del 22 settembre 2024

Il 19 agosto 2014, il giornalista freelance statunitense James Foley detto Jim, in ostaggio da due anni, fu giustiziato a Raqqa dai miliziani dello Stato islamico; il filmato della sua decapitazione, diffuso capillarmente attraverso Internet – Foley in ginocchio con una tuta arancione, come quella dei prigionieri di Guantanamo, alle spalle un uomo incappucciato e vestito di nero – agghiacciò il mondo confermando con pochi, iconici fotogrammi la brutalità del sedicente califfato. Sette anni più tardi, nell’ottobre del 2021, la madre del reporter, Diane Foley, ormai nota attivista per la liberazione degli ostaggi americani, spesso in rotta di collisione con il governo federale, fa il suo ingresso in un tribunale della Virginia, per incontrare uno degli assassini del figlio, Alexanda Kotey – nome di battaglia Jihadi George – cittadino americano radicalizzato in Siria e divenuto foreign fighter dell’ISIS. Da questo incontro prende le mosse il nuovo libro di Colum McCann, ora disponibile da Feltrinelli nella brillante traduzione di Marinella Magrì: Una Madre (pp. 237 ,€ 17,00).

Dismessi i panni del narratore sofisticato, non di rado sperimentale, McCann entra nel ruolo del «sussuratore di storie», prestando la voce a Diane Foley, quasi fosse un ventriloquo, invisibile eppure onnipresente, che accompagna una vicenda simile a una biografia e a un memoir senza essere né l’uno né l’altro. Chi ha in mente le mille prospettive di Apeirogon, il suo carattere insieme frammentario e sinfonico, i continui testacoda narrativi, gli episodi che gemmano uno dall’altro, sarà forse deluso da questo resoconto lineare, scevro di ogni asperità, svolto in una traiettoria mai digressiva che tende un arco tra un primo incontro della madre con il tagliagole Kotey, colpevole di otto capi d’accusa e in attesa di processo, e un secondo, nella primavera successiva, quando la condanna all’ergastolo è già stata spiccata. Nel racconto di Diane Foley, di cui McCann si fa vaso e strumento, si susseguono – divise in libri, come un epos in sedicesimo, insieme pubblico e privato, che riporta avvenimenti nudi e il loro rimbombo interiore – la detenzione di Jim Foley nel nord della Siria, la notizia dell’esecuzione che si propaga come un fuoco, lasciando l’America impietrita come dopo l’11 settembre. Poi la storia della propria vita a partire dal 1973 quando, con la guerra in Vietnam, lo scandalo Watergate e la crisi petrolifera, la giovane infermiera Diane, insieme al marito e al primogenito Jim – gli altri quattro figli sarebbero arrivati a ruota – trascorre giorni tranquilli nella campagna del New Hampshire.

Segue la rievocazione della giovinezza di Jim, fin da subito bruciato dal desiderio di ascoltare i dannati della terra e scriverne le storie. Passano poi in rassegna le stazioni successive: Jim è reporter in missione a Kandahar, cronista dalla Libia in guerra contro Gheddafi, dove sarà rapito una prima volta; da ultimo, giornalista indipendente durante la guerra civile siriana. Il ritratto del figlio – commosso e mai lacrimevole, seppure incorniciato da una retorica riparatrice e compensativa, intrisa di cattolicesimo – si intercala alla dura reprimenda di Diane contro la scriteriata indisponibilità del governo statunitense a trattare con i rapitori, contro l’uso forsennato dell’intelligence, la stolta vertigine delle spese militari, l’incapacità di comprendere i conflitti stranieri, la sicumera che pretende di ammaestrare il mondo.

Con la precedente produzione di McCann, questo libro così diverso – l’autore lo ha definito «saggio letterario» ma la targa non convince – condivide l’impasto dei fatti e del loro precipitato emotivo, il moto a pendolo tra prosa, poesia e giornalismo. E, come in Apeirogon, anche qui la dorsale che attraversa la storia di Jim passa attraverso la ricomposizione del conflitto, la giustizia, la riconciliazione. Rette dalla certezza che, come insegna Jim Foley, «l’ascolto è l’anima silenziosa della narrazione», le pagine in minore di Una madre sono a loro volta, in questo senso, un esercizio di umiltà.

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