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Coloni senza limiti: nel mirino c’è anche un generale israeliano

Poliziotti e coloni vicino al villaggio palestinese di Turmus Ayya Ap/Ohad ZwigenbergPoliziotti e coloni vicino al villaggio palestinese di Turmus Ayya – Ap/Ohad Zwigenberg

Cisgiordania Contro Yehuda Fox emessa la stessa «sentenza» usata contro Rabin. In un rapporto avvertiva degli ordini del ministro Ben Gvir alla polizia: non muovete un dito in caso di attacchi ai palestinesi. Per questo Biden ha fermato l’invio di 20mila fucili

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 29 dicembre 2023

«I coloni non sono protetti dal governo. Sono il governo». Così ci descriveva la «catena di comando» nella Cisgiordania occupata Yehuda Shaul, fondatore dell’associazione di ex soldati israeliani, Breaking the Silence, su un autobus diretto a sud di Hebron, a novembre.

«NON ESISTE una forza di polizia a difesa della popolazione occupata – continuava – L’unica missione dell’esercito è proteggere i coloni». Una missione che un anno e mezzo fa, prima dell’entrata in carica dell’attuale governo di ultradestra, era stata in qualche modo sancita dalla nomina a capo di stato maggiore dell’esercito del generale Herzi Halevi: il primo colono dal 1967 a rivestire una carica simile. È lui oggi che guida l’offensiva contro Gaza. Vive nella colonia di Kfar HaOranim, costruita sulle terre confiscate del villaggio palestinese di Saffa.

All’epoca le associazioni pacifiste israeliane, da Bts a Peace Now, avevano sottolineato come una tale nomina fosse la prova definitiva della simbiosi tra forze armate e movimento dei coloni. Quella con la politica era già approdata nei ministeri: da Avigdor Lieberman a Naftali Bennett, rappresentanti dei coloni hanno già guidato il paese. Il fatto che tale connessione si ufficializzi dentro l’esercito ha moltiplicato il senso di impunità di cui i coloni godevano già.

In Cisgiordania l’esplosione di brutali violenze contro le comunità palestinesi appare senza limiti. Tanto arrogante che ora lo stesso esercito sarebbe a rischio. O almeno, lo è chi ha capito che la violenza dei coloni può rappresentare un problema di immagine esterna e stabilità interna.

Come il generale Yehuda Fox, a capo dell’esercito israeliano in Cisgiordania. Su di lui, secondo lo Shin Bet, peserebbe un din rodef: per la legge tradizionale dell’inseguitore, è una sorta di «via libera» all’uccisione extragiudiziale di un soggetto accusato di mettere in pericolo la vita di qualcuno. Identico «via libera» che i rabbini kahanisti misero sulla testa di Yitzhak Rabin dopo gli accordi di Oslo del 1993 con l’Olp.

A minacciare Fox sarebbe la stessa frangia di ultradestra legata al partito del defunto rabbino Meir Kahane, in passato fuorilegge in Israele e oggi di fatto parte della coalizione di governo grazie a Potere ebraico del ministro Itamar Ben Gvir. Il capo dello Shin Bet, Ronen Bar, ha inviato una lettera al primo ministro Netanyahu e al presidente Herzog per avvertirli della «concreta minaccia alla vita del generale» dovuta all’escalation di critiche pubbliche nei suoi confronti, guidate da «un piccolo numero di persone, ma che sono estremiste e kahaniste».

Persone che, continua Bar, lo accusano di «avere sangue ebraico sulle mani, al punto da decidere un din rodef contro di lui». Poster con il volto di Fox e la scritta «wanted» sono comparsi in Cisgiordania, a firma del sedicente gruppo «Freedom Fighters of Israel».

LA SUA COLPA? La richiesta di applicare la detenzione amministrativa (misura cautelare senza accuse ufficiali né processo, ampiamente usata contro i palestinesi) per i coloni responsabili di violenze e un rapporto segreto – scriveva il Times of Israel il 23 novembre scorso – consegnato ad Halevi in cui afferma che la polizia non muove un dito contro le violenze dei coloni verso i palestinesi, su ordine diretto di Ben Gvir.

Un’apatia voluta che, secondo Fox, potrebbe provocare un exploit dell’ultradestra in Cisgiordania. Secondo l’esercito, dal 7 ottobre le aggressioni dei coloni sono cresciute del 54% rispetto a settembre, con almeno 201 casi registrati.

Più aggiornati i dati del governo britannico (confermati dalle ong locali) che il 15 dicembre parlava di «oltre 343 attacchi violenti, l’uccisione di 8 palestinesi, il ferimento di 83 e lo sgombero di 1.026 palestinesi dalle loro case». L’Onu ne conta ancora di più: sei attacchi al giorno dal 7 ottobre.

Sulla base del rapporto di Fox, ha scritto un paio di settimane fa Barak Ravid su Axios, l’amministrazione Biden avrebbe deciso di sospendere la vendita di oltre 20mila fucili a Israele, proprio per il timore che finiscano ai coloni e alle milizie paramilitari ufficiose messe in piedi da Ben Gvir, che di armi ai civili ne distribuisce ormai come caramelle.

La decisione è giunta mentre Washington imponeva sanzioni a decine di coloni, seguita a ruota da Londra. Bruxelles ne sta discutendo. Ma il senso di impunità resta totale. Anche a fronte della realtà degli ultimi decenni: secondo l’ong israeliana Yesh Din, solo lo 0,87% degli abusi compiuti dai soldati israeliani su palestinesi viene indagato (non necessariamente punito), percentuale che sale al 7% nel caso di coloni.

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