Chuck Wepner, l’antieroe si è perduto sul ring
Venezia 73 «The Bleeder» di Philippe Falardeau. La storia vera del pugile che ispirò Stallone per Rocky con una magistrale performance di Liev Schreiber
Venezia 73 «The Bleeder» di Philippe Falardeau. La storia vera del pugile che ispirò Stallone per Rocky con una magistrale performance di Liev Schreiber
Chuck Wepner nell’introdurre la sua storia, raccontata in The Bleeder (il sanguinolento) dice che tutti lo conosciamo, anche se il suo nome non sembra volerci dire nulla. Chuck era un giovanottone sanguigno del New Jersey. Venditore di liquori, sposato con Phyll ma sciupafemmine inveterato, propenso alla rissa. Infatti accanto all’attività di venditore unisce quella di pugile. Noto più per la capacità di resistere pur devastato da ferite sanguinanti che per il talento mostrato nella nobile arte. La grande occasione gli viene da Don King, mitico organizzatore di boxe.
Dopo che Alì ha battuto Foreman in Africa, Don decide che deve incontrare un bianco. Tra i primi dieci pesi massimi ce n’è solo uno bianco: Wepner. E l’incontro viene organizzato nel 1975 a Cleveland. I bookmakers danno la vittoria di Chuck 40 a 1. Lui ha un solo obiettivo: resistere sino alla fine delle 15 interminabili riprese. Crolla massacrato a 19 secondi dal raggiungimento dell’obiettivo. Ma diventa ugualmente un mito. Alimentato ulteriormente da Sylvester Stallone che costruisce Rocky Balboa ispirandosi proprio alla biografia di Wepner, il vero Rocky. Ma da lì parte una deriva, sempre spronato dal manager (Ron Perlman) che lo porta a combattere contro il gigante del wrestling e contro un orso sempre perdendo, ma quel che più conta è che perde contro se stesso, finendo addirittura in galera per spaccio, ma soprattutto per stupidità.
Philippe Falardeau, canadese, già regista del delicato emozionante Monsieur Lazhar, costruisce un piccolo grande monumento che non è quello che campeggia a Philadelphia dedicato a Rocky-Sly (che nella fiction ha vinto contro Apollo Creed) ma prende corpo e anima da Liev Schreiber. Davvero monumentale nel costruire questo antieroe, capace di resistere a Mohammed Alì, ma che si fa magnificamente massacrare dalla moglie (Elisabeth Moss) in un bar mentre cerca di rimorchiare una bionda «neppure troppo carina». Baffoni e cappotto a quadri, indossato sempre, disco music e coca, vodka e gallinelle è tutto più forte di lui convinto di riuscire a rimanere a galla in ogni modo e invece disastroso nei rapporti con la figlia, con la moglie e con il fratello che pure senza mostrarlo lo ama profondamente.
Il paradosso di The Bleeder è che, in fondo, molto in fondo, «c’è più di quel che si vede in Chuck a prima vista, non molto, ma giusto abbastanza». Questa frase è quella che gli dice Linda (Naomi Watts), cameriera del bar dove Chuck si rifugia e che ha saputo dargliela lunga più volte.
La difficoltà del film sta tutta nel dover ricostruire un mondo e delle situazioni autentiche (talvolta infatti Falardeau ricorre a materiale di repertorio) senza che il racconto si sfaldi. Ma lo spirito cialtrone e guascone di Chuck rende tutto più semplice come quando afferma che Stallone gli avrebbe offerto l’1% degli incassi di Rocky oppure 70mila dollari sull’unghia. Seconda opzione che lui ha accettato. In realtà non ha preso nulla, ma si sarebbe sentito un idiota nel dirlo davanti a tutti. Stallone che ha anche cercato di farlo lavorare nel sequel di Rocky, ma la dabbenaggine di Wepner ha gettato tutto alle ortiche. Presentato fuori concorso The Bleeder è l’occasione buona per premiare Liev Schreiber e avere anche sua moglie Naomi Watts sul tappeto rosso.
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