Chiara Caterina: «Il cinema come un rituale per rigenerarci»
«Mi piace pensare che fare un film, anche piccolo, sia un viaggio molto simile ad un sogno lucido: la tecnologia, il montaggio, le macchine, gli effetti speciali creano l’illusione di poter cambiare la realtà». Così Chiara Caterina parla de La stanza lucida, in concorso nella sezione Short Italian Cinema alla Settimana della Critica, dove lo scorso anno la regista aveva vinto con L’incanto. Un ritorno quindi, con al centro l’esperienza onirica del protagonista – interpretato da Francesco Napoli – nella quale confluiscono ricordi, impressioni, simboli. L’obiettivo di una possibile catarsi o guarigione si intreccia, come d’abitudine per Caterina, con una ricerca formale che abbraccia numerosi formati di ripresa – dalla pellicola al video – e con un’interrogazione aperta sul mistero che abita la nostra interiorità.
Il rapporto con la materia, la ricerca di una sensazione tattile, sono questioni molto presenti nel film.
Volevo provare a «contaminare» la percezione di sensi diversi, quello che chiamiamo sinestesia. Il mio lavoro è sempre molto intuitivo, faccio facendo, ed è emersa l’idea di esplorare, soprattutto durante la sequenza del sogno lucido, la possibilità che il protagonista – e quindi lo spettatore – potesse sentire di più, o in modo diverso, la natura in cui si immerge: un fiore, una foglia, la sabbia, le onde del mare sulla riva, ma anche il sapore in bocca di un pezzo di pane.
Ci sono temporalità e ritmi diversi, a cui hai dato forma attraverso il montaggio. Che ruolo ha nel tuo modo di lavorare?
All’inizio sapevo soltanto che il film avrebbe dovuto avere due tempi, quello della realtà o della coscienza che corrisponde alla prima parte, in cui il protagonista è chiuso in una stanza e ne esplora gli spazi attraverso il proprio corpo e gli oggetti che trova; e poi il tempo della seconda parte, quello del sogno, il tempo di una coscienza diversa o comunque alterata. Presa questa decisione il montaggio è avvenuto in modo abbastanza fluido, la direzione era chiara. Volevo poi stabilire, servendomi di determinati oggetti a me cari, una connessione tra il passato di un posto e di un’epoca che non esistono più – con l’archivio nelle immagini delle diapositive, del giornale, del mangianastri che trasmette alcuni estratti del processo per la Strage di Ustica, del materiale filmato in 16mm ed in video8 – e il presente che si sdoppia, a sua volta, in due dimensioni, quella della solitudine vissuta in una stanza, nell’attenzione ai gesti che si compiono quando nel silenzio si è così vicini al proprio corpo, e quella del sogno lucido, quando può avverarsi l’atto magico capace di modificare le cose che ci circondano e far tornare indietro il tempo.
Il processo di guarigione era precluso alle figure «dannate» de «L’incanto», su cui pesava una condanna. Il protagonista di questo film riesce invece ad osservarsi e ad agire. È un lavoro in fondo positivo, che crede in una possibile liberazione?
Credo di sì, prima di tutto a livello personale perché nasce con la voglia di fare qualcosa per e con il mio carissimo amico Francesco Napoli, l’attore protagonista. La rottura che viveva dolorosamente e la mia voglia di stargli vicino sono state il punto di partenza per dare vita ad una sorta di rituale filmato. Se L’incanto sprofondava e ci lasciava sospesi ad un filo sottile, quello della speranza in una giustizia che sapesse «vedere», La stanza lucida invita a credere in un superamento: forse quello della vita che va sempre avanti nonostante noi stessi e gli altri, che ci piaccia o no. E lo fa anche dandoci strumenti potenti che ancora non conosciamo e che credo valga la pena esplorare. Non parlo soltanto della tecnologia ma anche della ricerca personale attraverso diversi stati di coscienza.
Quest’anno nella selezione della Sic è molto presente una riflessione sul genere, nel tuo film è appena accennata nella caratterizzazione del protagonista anche se il rapporto amoroso è sicuramente uno dei fuochi del suo «viaggio». È una questione che entra nel tuo modo di fare cinema, anche se sottotraccia?
È innegabile che ci siano sempre più film che affrontino la questione del genere e anche se mi auguro che essa smetta presto di essere una «questione» o una «tematica» mi rendo conto che sia un passaggio necessario ed obbligato per abbattere i pregiudizi e per proporre modi di vedere e storie che siano specchio del nostro tempo. Mi piacerebbe che l’immagine riflessa in questo specchio smetta di essere deformata dallo sguardo di molti. Nel caso del mio cortometraggio non c’è stata una riflessione specifica in proposito, quello che ho fatto è stato soltanto avvicinarmi alla condizione reale dei rapporti che vedo intorno a me, che fanno parte della mia vita e delle persone che frequento.
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