Al crocevia delle grandi utopie novecentesche e delle loro inquiete espressioni artistiche, la poesia di Charles Bernstein si tiene a distanza da qualsiasi narcisistico ripiegamento, esibendo piuttosto una tensione verso quello che chiama un «campo esteso» di «conversazione». Arrivato a quarant’anni alla cattedra dell’università pubblica di Buffalo, Bernstein fondò con Robert Creeley, Dennis Tedlock, Susan Howe e Raymond Federman un dipartimento di poetica interamente gestito da poeti, diffondendo, tra «disgiunzioni verbali» (nella definizione di Paul Bové) e invenzione letteraria, l’idea di una pratica poetica indistinguibile dalla teoria e dalla riflessione sul presente. Nel suo lavoro si intravedono, infatti, gli slogan della protesta pacifista e dei movimenti femministi e per i diritti civili condivisi anche dagli altri poeti L=A=N=G=U=A=G=E, sempre pronti a uscire, nel solco di  Whitman, dalla pagina scritta, per unirsi all’azione politica e spingere il lettore-spettatore verso orizzonti di radicale trasformazione.   Anche nell’anomala punteggiatura concepita da Bernstein e Bruce Andrews nel 1977, si riflette il desiderio di maggiore equità che distingue quella generazione politica e poetica, procedendo in direzione centrifuga, tra inusitate sequenze fonematiche e giochi linguistici ispirati a Wittgenstein.

Pubblicata nella collana rossa fondata per il Verri da Milli Graffi, l’antologia di liriche Eco/Echo (a cura di Carla Buranello pp. 304, € 22,00) recupera ora testi già editi in parte in Italia, per esempio «È il gusto che conta», che uscì nel 1981 in una antologia Feltrinelli a cura di Luigi Ballerini e di Richard Milazzo (La Rosa disabitata: Poesia trascendentale americana. 1960-1980), «Sensi di responsabilità» e «L’influenza delle strutture parentali», tradotte da Edward Lynch per «Nuovi Argomenti». L’edizione di Eco/Echo non consente l’immediata verifica del testo a fronte, escogitando una struttura rovesciata che allontana la traduzione dall’originale; ma questo non impedisce al lettore di centrare il confronto con uno dei maggiori sperimentatori viventi che, da funambolico costruttore di giochi di parole, aggira i cliché del linguaggio comune. In quella lucida teorizzazione della sua poetica che si trova in Pitch of Poetry (2016), Bernstein rivelò di avere maturato i suoi personali echi semantici tra le pagine di Gertrude Stein, che pure ha costruito il suo stile su variazioni morfologiche del discorso parlato, strappando al lessico quotidiano fonemi destinati a diventare note e unità sonore della poesia moderna. La sua fibrillante costellazione di allusioni e iterazioni capaci di trasformare assieme al segno il senso è un elemento compositivo che anche in Bernstein produce impercettibili spostamenti semantici, arricchiti dal contatto con l’oggettivismo Yiddish di Louis Zukofsky. A questo poeta poundiano cresciuto tra i fermenti socialisti newyorkesi degli anni Venti e Trenta, Bernstein ha dedicato nel 2006 una piccola antologia uscita per la Library of America, intercettando stratificazioni vernacolari e fermenti rivoluzionari della memoria storica del Novecento, riprodotti nell’esuberanza delle performance in cui attirava il pubblico con versi di potente sonorità.

Proprio il suono gioca un ruolo costituente nella poesia di Bernstein, spesso eseguita a voce alta e sorretta da un’attenta scansione ritmica fatta di attacchi vocalici duri, in cui il poeta riversa un’energia che si direbbe patafisica, una retorica d’urto che, nel rovesciare ogni affermazione, smonta formule e diktat autoritari. Il carattere intrinsecamente ermeneutico della poesia di Bernstein ingaggia il lettore/ascoltatore in un lavoro di decifrazione che lo avvia, come spiega Paul Bové, sul terreno accidentato della «dissidenza cognitiva», attraverso una catena di «insistenze idiomatiche» che inducono il lettore a un’irriverente, partecipata costruzione del senso. Nel cercare inusitati assetti grafici, la poesia di Bernstein chiede a chi legge di operare tra gli spazi «tremolanti» di una punteggiatura che, nel separare lettere e parole, indica nuove strade interpretative del presente. All’esecuzione dirompente del testo poetico si affianca, infatti, anche a una dimensione iconica, che, nella serie A Veil (1976), assume il distinto segno optical di una tessitura grafica composta, al pari della poesia visiva di Susan Howe, da alfabeti tradotti in materia cromatica. Ne viene fuori una parola dipinta e apparentemente desemantizzata da mutilazioni verbali, consunzioni del senso e asimmetriche trascrizioni fonetiche, che spesso racconta la fuga dal terrore degli artisti della diaspora ebraica, storicamente attratti dall’astrattismo, in quanto terreno cifrato in cui appropriarsi finalmente della lingua dell’espatrio.

Lei incarna, come altri autori L=A=N=G=U=A=G=E, la doppia dimensione del poeta e del critico, e a questo proposito è stato tacciato di un eccesso di intellettualismo. Che senso ha per lei la convergenza di questi interessi teorici nella sua poesia?
Poesia, saggistica e traduzione sono generi distinti che formano il tessuto della mia poetica e della tradizione a cui mi richiamo. L’iniziale obiettivo dei poeti L=A=N=G=U=A=G=E era quello di  creare una scrittura critica militante accanto alla nostra pratica poetica, per opporci agli standard della prosa espositiva, che oggi è anche più egemonica del lirismo in poesia. Il passo seguente fu, nel 1991, fondare a Buffalo un dipartimento di Poetica e un dottorato di ricerca dove i poeti non insegnavano scrittura creativa ma storia, letteratura ed estetica.

In questa prospettiva, ha davvero senso per lei diversificare la poesia tradotta dai poeti da quella che ci restituiscono i critici-traduttori?
Le due attività sono per me sempre state complementari: il punto non è andare oltre i generi letterari. Del resto, le mie poesie sono spesso veri e propri saggi («Artifice of Absorption» ne è un esempio) che sta al lettore scegliere in quale veste interpretare. Sebbene sia convinto che la poesia non possa esaurirsi in sé, e che abbia bisogno di un commento storico-critico da attuarsi nella «performance», io preferisco separare il contesto critico da quello inventivo. Diversamente dall’immagine diffusa che si ha della poesia, essa non è mai monologo né esercizio solitario, perché vive in tutti i contesti in cui si produce senso. E’ questo che intendo quando, riprendendo la nozione di «interna differenza» introdotta da Emily Dickinson, parlo di «antinominalismo midrashico»: la poesia non è solo una risposta ad altre poesie, rientra in una conversazione più ampia, è sempre un’ecopoetica.

Gertrude Stein e Ludwig Wittgenstein fanno parte della genealogia dei suoi versi, ma si direbbe che un autore anche più importante nella sua poetica, per il vostro comune retroterra ebraico-newyorkese, sia l’oggettivista Louis Zukofsky.
Devo molto a tutti quei «liberi pensatori ebrei» che, come scrive T.S. Eliot, «motivi di razza e religione contribuiscono a rendere indesiderati». A Zukofsky potrei aggiungere i nomi di William Carlos Williams, Laura Riding, Mina Loy, Charles Resnikoff, Melvin Tolson: tutti autori per i quali la poesia è una costellazione di parole e non un modo per esprimere i propri sentimenti. Questo atteggiamento, direbbe Williams, contrasta la cosiddetta «vena americana». Credo che anche la poesia più emotiva resti una costellazione di parole e di effetti retorici, dei quali si può cercare di sopprimere l’artificio, senza per questo eliminarlo.

Lei ha recentemente espresso una certa resistenza verso la nozione di avanguardia, sebbene le riconosca una sua necessità storica: malgrado le loro intolleranze, gli scismi e le persecuzioni immotivate che hanno segnano la loro storia, i circoli sperimentali del Novecento hanno creato microsocietà che, anche in ambiente digitale, come scrive Mary Ann Caws, preannunciano la costruzione di nuove «comunità creative» in grado di concepire una socialità, anche artistica…
Non amo il concetto di comunità per definire le collaborazioni artistiche, e neppure il termine «sperimentale». Avere una comunità di riferimento può essere rivitalizzante ma, come la parola «empatia», essa presenta non pochi problemi. Per quanto nutra sentimenti leali verso i miei amici poeti, mi stanno molto più a cuore le possibilità espressive della poesia. Ipotizzare costellazioni poetiche «exogamiche», concepite in una prospettiva trans-nazionale e trans-storica, è per me più plausibile.  Anche il termine «avanguardia» ha un che di chiuso, di militaresco e di inattuale, che allude a un senso euclideo di avanzamento e di progresso. Preferisco alleanze creative più concave, associative e tolleranti rispetto al gruppo poetico fisso, fallico, intrusivo e convesso. Quindi, in alternativa, ho inventato una serie di designazioni ironiche e meno convenzionali come com(op)posizionalità, disrafismo, paraquerico, ideolettico (in luogo di idio-), ecopoetica, formalismo sociale.

Nel cinquantesimo anniversario della morte di Pound, l’Italia e l’Europa ne riattualizzano l’opera, tramite diverse traduzione, mostrando di sospendere il veto ideologico che ha impedito una piena riscoperta di questo poeta e del suo ruolo insuperato nello sviluppo delle Avanguardie. Lei cosa ne pensa?
Penso che tanto Pound quanto Eliot non appartengano a nessuna comunità di cui io possa fare parte: la mia relazione con loro è convintamente «exogamica». Pound non è un poeta insuperato, neppure nella sua generazione. Le sue opere sono ormai parte del canone e sono pubblicate dalla Library of America. Si parla di lui negli Stati Uniti più di tanti altri poeti americani che ammiro di più e che restano marginali. E’ logico che Pound non possa sfuggire a una valutazione che prescinda dall’ideologia, perché il suo lavoro è carico d’ideologia e, d’altronde, non esiste poesia che non lo sia, inclusa la mia. Qualche anno fa venni invitato dalla Library of Congress a parlare di Pound in occasione del suo compleanno, ma non la presi come una celebrazione. Le mie performance comiche esprimono proprio un rifiuto viscerale della tendenza di Pound all’asserzione e al dominio.