Il congresso della Cisl e le recenti posizioni sul salario minimo, sebbene un poco amare nell’esito finale, in realtà consegnano a Cgil e Uil una occasione (necessità?) importante per riprogettare il Paese nel solco del riformismo rivoluzionario (Riccardo Lombardi). Ovviamente devono riflettere sulle grandi questioni del nostro tempo, e mettere al centro della propria discussione i “diritti presi sul serio” (Einaudi), le classi sociali (Sylos Labini), le intuizioni di Tarantelli sul ruolo del sindacato nel cambiamento della società e, non da ultimo, la democrazia come esercizio del potere con tutte le istituzioni necessarie per realizzare i giusti e indispensabili contrappesi.

Vale anche il monito di Caffè F., ovvero che “il problema dello stato sociale sia quello della sua mancata realizzazione; non già quello del suo declino, o del suo superamento” (La fine del welfare state come riedizione del crollismo, 1982). I tempi e la storia del Paese sono indiscutibilmente cambiati, ma le sfide che attendono le due organizzazioni riflettono le domande e le suggestioni di queste enormi persone, soprattutto nelle idee.

Nel frattempo, abbiamo anche una guerra che probabilmente riscriverà la geografia economica, ed è in questo nuovo e inedito scenario che Cgil e Uil dovrebbero sviluppare riflessioni importanti sul piano delle idee. Si potrebbe anche ricordare Minsky e in particolare un lavoro tradotto dalla Cgil a corollario del Piano del lavoro: Combattere la povertà. Lavoro non assistenza (Bellofiore e Pennacchi, trad. Variato A.).

Nell’attuale frammentazione della politica e del lavoro, quest’ultimo vittima di una narrazione della Storia che ha rimosso il benefico e proficuo conflitto Capitale-Lavoro (J. Robinson), il sindacato è forse l’ultima istituzione del Novecento; è un dono della modernità e delle istituzioni che riflettono una idea di società che evolve e cambia nel ben-essere.

In altri termini, sebbene la Cisl rifletta una incipiente postmodernità, Cgil e Uil sono il soggetto riformista e progettuale ideale che serve al paese per emancipare il conflitto Capitale-Lavoro assieme allo Stato (nazionale ed europeo). Servono anche i megafoni, ma i due sindacati necessitano di una narrazione (studio) della società e del suo tessuto ri-produttivo. Per intenderci dobbiamo riappropriarci delle implicazioni tecniche-economiche-sociali e “potenziali” del Pil, dei consumi e degli investimenti, unitamente alla sua redistribuzione: salari, rendita e profitti.

C’è voglia di cambiare e qualcuno si è spinto a chiedere nuovi indicatori economici e sociali. Non è questa la via, piuttosto lo studio e l’analisi di quello che possiamo osservare data dalle convenzioni contabili. Siamo nella Storia, non a monopoli. Lavoro e Capitale sono stati esclusi dalle grandi domande del nostro tempo. Sebbene la narrazione del capitale nazionale appaia egemone, in realtà è derubricato come e quanto il lavoro.

La riflessione sociale ed economica nazionale è appiattita sui costi e non sulla domanda, precipitando nell’inedita convergenza sul ruolo pubblico circa il livello e il peso delle tasse. Robespierre avrebbe qualcosa da ridere sul punto, in particolare quando sosteneva che le tasse sono 1) un diritto e 2) fondamentali per la democrazia.

L’Europa è ancora un terreno di analisi incompiuto per Cgil e Uil. Next Generation Eu ha forse schiuso una riflessione, ma non ha mai proposto il tema del bilancio pubblico europeo nella direzione di un bilancio funzionale. Il bilancio pubblico (europeo) non è importante solo per la dimensione, tutt’ora insufficiente, piuttosto se il bilancio diventa uno strumento di politica economica che si serve di società pubbliche per esercitare il ruolo di agente economico.

Senza scomodare ancora i grandi della politica nazionale, Aldo Moro è un’ottima àncora per ragionare su questa fondamentale questione: “Quando si dice controllo dell’economia, non si intende però che lo Stato debba essere gestore di tutte le attività economiche, ma ci si riferisce allo Stato nella complessità dei suoi poteri e quindi in gran parte allo Stato che non esclude le iniziative individuali, ma li coordina, le disciplina e le orienta” (Assemblea Costituente, 3 ottobre 1946).

Il lavoro, la sua organizzazione ed esercizio della democrazia sono un pezzo della triade della democrazia economica che Leon ha più volte suggerito: Capitale-Stato-Lavoro. Le istituzioni keynesiane devono evolvere. Keynes è un gigante, così come Marx assieme a tutti gli economisti classici, ma questi giganti sono utili nella misura in cui riusciamo a costruire degli equilibri superiori data una realtà sociale ed economica che, giustamente, è cambiata. In fondo, il capitale non è mai uguale a sé stesso e su questo punto abbiamo un debito “culturale” con Marx che dobbiamo però meritarci.