Cultura

Central Park, sfida in nome della libertà

Central Park, sfida in nome della libertàUn’immagine del Central Park. Foto Ap

Geografie Mito e realtà del parco di New York in un libro dello storico Marco Sioli (Elèuthera). Inaugurato in più tappe tra il 1857 e il 1876, faceva eco alle idee di Emerson e Thoreau sul senso di libertà che l’individuo può realizzare solo all’interno degli ampi spazi naturali. Il ruolo delle origini di «parco del popolo» dove le famiglie operaie incrociano quelle facoltose ritorna con le mobilitazioni ecologiste e contro la guerra dopo l’11 settembre. Sorge su terreni già abitati da indiani Wecquaesgeek, olandesi, afroamericani e immigrati dell’Est Europa

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 19 novembre 2023

«Io abito a New York, e pensavo al laghetto di Central Park, vicino a Central Park South. Chi sa se quando arrivavo a casa l’avrei trovato gelato, mi domandavo, e se era gelato, dove andavano le anitre? Chi sa dove andavano le anitre quando il laghetto era tutto gelato e col ghiaccio sopra. Chi sa se qualcuno andava a prenderle con un camion per portarle allo zoo o vattelapesca dove. O se volavano via». Holden Caulfield è un adolescente della buona borghesia newyorchese che, espulso dall’ennesimo college prestigioso a causa del proprio scarso rendimento scolastico, racconta il proprio ritorno nella Grande Mela alla vigilia di Natale e le disavventure in cui incorre. Nel quesito sulle «anitre» del Central Park il ragazzo sembra proiettare le incertezze che ne traversano l’animo, ma anche la propria dolorosa e contraddittoria empatia verso il creato.

MA, IL PROTAGONISTA del celebre romanzo di J. D. Salinger, Il giovane Holden (1951), non è certo l’unico a volgere lo sguardo al grande parco che come un immenso cuore verde rivendica il proprio spazio in mezzo ai grattacieli nel centro dell’isola di Manhattan. È nel mezzo dei 340 ettari di boschi e piccole montagne, sentieri e prati, rocce antiche e piccoli canyon di New York che i protagonisti di Hair, uno dei musical più noti di tutti i tempi, diretto nel 1979 da Miloš Forman e basato sull’omonima commedia musicale di Broadway (1967), mettono in pratica il loro rifiuto della guerra, in quel caso quella combattuta dagli americani in Vietnam.

È qui che Claude, un ragazzo appena arrivato dalle campagne dell’Oklahoma e destinato a breve a raggiungere il suo plotone del Sudest asiatico incontra un gruppo di hippies: circostanza destinata probabilmente a cambiargli la vita. Sdraiati su un prato del parco, due dei protagonisti offrono una nitida definizione del conflitto allora in corso: «La chiamata alle armi significa che dei bianchi di pelle mandano dei neri di pelle a fare la guerra contro dei gialli per difendere la terra che loro hanno rubato a dei rossi di pelle». Parole che sembravano fare in qualche modo eco a quelle, passate alla Storia, pronunciate da Muhammad Ali nell’aprile 1967 per motivare il suo rifiuto ad ottemperare alla chiamata di leva: «Nessun vietcong mi ha mai chiamato “negro”».

Anche al di là degli esempi citati, scelti proprio per la loro evidente distanza, tale da rappresentare l’intera gamma della «presenza» del parco nel racconto pubblico statunitense, che si tratti di narrazioni letterarie o cinematografiche – anche se il film a cui tutti potrebbero pensare a prima vista, la commedia A piedi nudi nel parco, con Jane Fonda e Robert Redford (1967) è stato invece girato nel piccolo Washington Square Park, nei pressi del Greenwich Village – è chiaro come il Central Park incarni uno dei simboli dell’immaginario d’oltreoceano.

Un bel libro dell’americanista della Statale di Milano Marco Sioli, Central Park, un’isola di libertà (Elèuthera, pp. 156, euro 15) si incarica ora di indagare anche quanto di questo stesso immaginario si sia scritto non tanto in relazione, ma direttamente dentro i viali e i colli del parco, nella sua progettazione, genesi, realizzazione e, infine, fruizione da parte dei cittadini di New York. Un percorso che ha fatto del luogo «per quasi duecento anni lo straordinario palcoscenico dove è andata in scena la vicenda umana di una città e di un Paese».

Tra i primi elementi evidenziati da Sioli vi è il profilo per così dire «culturale» del polmone verde della metropoli statunitense. Nato dal progetto dell’architetto del Connecticut Frederick Law Olmsted, uno dei padri della Landscape Architecture, e del collega britannico Calvert Vaux, il parco, inaugurato in più tappe tra il 1857 e il 1876, faceva eco alle idee di Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau sul senso di libertà che l’individuo può realizzare solo all’interno degli ampi spazi naturali.

L’ORIZZONTE a cui si guardava già in fase di progettazione era perciò quello di riportare in una città che andava assumendo una forma moltitudinaria – la popolazione sarebbe passata da poco più di 152 mila nel 1820 agli oltre 3 milioni alla fine del secolo -, qualcosa della wilderness originaria, quando, ben prima dell’arrivo degli olandesi, e poi degli inglesi, l’isola era popolata dagli indiani Wecquaesgeek.

Per Olmsted, proprio il caotico sviluppo urbano che iniziava ad investire New York imponeva poi al nuovo spazio naturale un’ulteriore «missione». Si trattava, come ricorda Marco Sioli, di «unire le persone e attutire le tensioni», creando «un territorio di mezzo, un middle ground, fra il ricco uptown, dove si trovavano all’epoca le ville dei politici facoltosi, come lo era stato Alexander Hamilton, il primo segretario del Tesoro americano, e il misero downtown, abitato da miriadi di nuovi immigrati, vomitati dalle navi nel caotico Lower East Side».

Il luogo destinato alla costruzione del parco era una sorta di baraccopoli, spesso abitata dagli «ultimi arrivati», perlopiù immigrati dall’Europa e afroamericani in fuga dagli Stati del Sud. Eric Homberger, nel suo New York City (Bruno Mondadori, 2003), sottolinea ad esempio come a fare le spese del progetto del parco sarebbe stato il cosiddetto Seneca Village, abitato da neri, e sorto fra la 83rd e la 88th Street, fatto sgomberare in modo spiccio nel 1853.

Pur non senza contraddizioni, quella vasta area di natura «selvaggia» sorta nel centro della metropoli americana, ricca di olmi altissimi, platani, liriodendri, querce bianche, tassodi, come di centinaia di altre specie vegetali, e che sarebbe stata in seguito alimentata anche da 15mila metri cubi di terreno agricolo più fertile trasportato dal vicino New Jersey, si presentava perciò come «il parco del popolo» dove le famiglie dei lavoratori della parte meridionale di Manhattan avrebbero potuto incrociare quelle dell’«aristocrazia del denaro» della zona destinata a divenire l’Upper East Side. Anche se, nei fatti, la costruzione di nuove abitazioni di pregio e il cambio dei valori dei terreni intorno al parco avrebbero in parte smentito gli auspici di Olmsted quanto ad una funzione anche sociale dello spazio.

UN RUOLO CHE IL PARCO avrebbe però svolto a fasi alterne anche nel corso del Novecento, dove a momenti di abbandono e degrado, segnati dall’aumento della criminalità e dal flagello dell’eroina che caratterizzarono ad esempio a lungo New York nel corso degli anni Settanta, si succederanno periodi nei quali Central Park si è trasformato nel proscenio della partecipazione democratica e del protagonismo dei cittadini. Ciò che Marco Sioli definisce con l’illuminante espressione di «uno spazio di libertà allargata, in cui si accede senza barriere né cancelli». È qui ad esempio che prese corpo, dopo le manifestazioni pacifiste della seconda metà degli anni Settanta, già nella primavera del 1970 il primo Earth Day, destinato a coniugare in maniera all’epoca ancora inedita ambientalismo e movimenti di protesta. E, ancora più di recente, dopo l’attacco jihadista dell’11 settembre del 2001 e la War on Terror lanciata successivamente dall’amministrazione Bush, sarà di nuovo sui prati del parco che si riuniranno i newyorchesi, feriti dalla minaccia del terrorismo ma certi che la guerra non potesse essere la risposta migliore.

FORSE NON A CASO, suggerisce ancora Sioli, le traiettorie del poeta Walt Whitman, che del Central Park era un grande frequentatore, e dell’architetto Frederick Law Olmsted, malgrado i due non si conoscessero, sembrano convergere da molti punti di vista. Entrambi si trovarono, all’indomani della Guerra civile che aveva sconvolto il Paese, a riflettere su ciò che avrebbe potuto risanare la società americana e vollero scorgere nel loro approccio all’esperienza urbana, una forma di libertà e di condivisione che proprio nel parco di New York trovò una delle sue prime e credibili manifestazioni. «Il cortile di casa per generazioni di newyorchesi, ma anche un luogo di svago per i visitatori che si spostano lungo i percorsi tortuosi voluti dal fondatore in cui è facile perdersi e ritrovarsi».

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