Non c’è ancora stata la designazione ufficiale della città Expo 2030, ma a Busan, che gareggia con Roma e con Riyadh, la sfida la credono già vinta, basta vedere la pervasiva campagna pubblicitaria che illumina e invade ogni angolo della città come pure la quantità di cantieri aperti e la folla di operai al lavoro con e senza caschi di sicurezza. Si anticipa sempre tutto e tutti, anche la data di nascita sui documenti di identità, come succede dal giugno scorso.

Un po’ come favorevole presagio, un po’ per assaporare il tempo della festa, ecco il BPAM, il Busan Performing Arts Festival che si è svolto tra il 10 e il 13 ottobre, con un programma di oltre cento spettacoli che il direttore artistico Lee Jong-ho con la efficientissima coordinatrice Hyejin Kim ha allestito, mettendo insieme i programmi del BIPAF-Busan International Performing Arts Festival, del BIDAM-Busan International Dance Market, del BUSSA- Busan Street Art Festival. Non solo spettacoli ma anche presentazioni di artisti come quella fatta da Cinars -Conférence internationale des arts de la scène per gli artisti del Quebéc, e poi B2B come quelli che si fanno nelle fiere commerciali e che quichiamano BPAM DATE fatti anche di notte a suon di musica.

Quattro giornate che hanno richiamato una settantina di programmatori e direttori di festival e di teatri da ogni parte del mondo, messi a dura prova dal ritmo frenetico e dalla simultaneità con cui si succedevano le performance, tra la Busan Citizen’s Hall, il teatro più antico della Corea del Sud, la Gaon Art Hall, l’lteo Small Theatre e lo Small Theatre Citizen’s Hall e le strade adiacenti ai teatri trasformate in palcoscenici per circensi e artisti di strada ma anche per divoratori di street food.

Busan città-teatro accoglieva solo artisti coreani con il desiderio di farli conoscere fuori dai confini nazionali e di coinvolgerli in auspicabili percorsi di collaborazioni artistiche e di coproduzioni internazionali.

Due interessanti esempi virtuosi venivano dalla danza contemporanea, il primo con un Bolero frutto della collaborazione tra l’Accademia Coreana delle Arti e il coreografo israeliano Shahar Binyamini, formatosi al fianco dei coreografi della Batsheva Dance Company, Ohad Naharin e Sharon Eyal, e ora attivo col Ballet BC di Vancouver.

Spoglio della sensualità bejartiana, il Bolero di Shahar Binyamini e dei trenta giovani danzatori dell’Accademia, cerca strade diverse per esprimere sentimenti ed emozioni, cerca a Busan di comunicare con un pubblico che non riesce ad allontanare le immagini del massacro di Hamas. Lui lavora sulla composizione lineare, seriale dei gesti e dei movimenti, crea un campo visivo affascinante e altrettanto seducente dove prevale più la coralità rispetto al singolo, dove l’energia strabordante dei corpi dei danzatori diventa geometria che moltiplica cerchi e linee, direzioni e significati, macchina che produce altra energia, ritmo percussivo che non lascia respiro.

Riuscito dal punto di vista produttivo e artistico è sembrato essere anche il secondo progetto coproduttivo, la performance Koreality, nata dalla collaborazione tra la compagnia Bodytalk di Monaco, fondata e diretta dalla danzatrice e coreografa giapponese Yoshiko Waki e dal compositore tedesco Rolf Baumgart. Un titolo e una performance polisemica: Koreality sta per ‘realtà coreana’ ma può essere la realtà doppia delle due Coree o la realtà sovraesposta, sovrapposta nella duplicazione e moltiplicazione di senso e di segni, di immagini e di colori, di suoni e di luci, di canti e di parole che accompagnano lo spettatore in un viaggio affascinante e vertiginoso eppure critico, autocritico, sottilmente ironico dentro la cultura e l’immaginario coreano.

Insieme a otto performer coreani Waki e Baumgart guardano alla Corea come specchio identitario che rifrange vizi e virtù, ossessioni e debolezze, tradizioni e tradimenti che accomunano noi europei e loro coreani. I coltelli e la violenza, i ventagli, le maschere e i costumi tradizionali, il K-pop, il rock e il rap, Kurt Weil e Nina Hagen, Bertolt Brecht e Pina Bausch e Johann Kresnik, le droghe e la trance, il culto della bellezza e della perfezione dei corpi con il glitter à gogo. In scena ci sono solo otto danzatori, ma sembrano una moltitudine che cerca di liberarsi da catene e da modelli omologati di vita. Un’opera che sa essere dolce e radicale nello stesso tempo.

Anche sul fronte delle arti circensi sono tante le performance che esplorano l’equilibrio e la perfezione come quella del collettivo Force che in Suzik lavora sul principio di gerarchia verticale presente nella società ma sempre contraddetto dal principio di gravità o quella di Circus D.Lab che in Zerling New Wave affrontano il principio di verticalità dalla prospettiva della caduta e del crollo.
BPAM si è proposto come osservatorio speciale per indagare evoluzioni e contraddizioni dei linguaggi performativi, spazio strutturato di dialogo fra culture diverse che affida alle arti performative contemporanee il compito di immaginare il nostro futuro.

Una nuova era: «Back to the Future»
Chissà se la Biennale Arte di Venezia 2024 ospiterà qualcuno degli artisti presenti in Back to the future, la mostra attualmente installata nel MCCA- Museo Nazionale dell’Arte Moderna e Contemporanea di Seoul che offre una panoramica dei cambiamenti di linguaggio e di visione intervenuti nell’arte contemporanea coreana, soprattutto in relazione al processo di globalizzazione e all’ascesa del neoliberismo che ha investito negli anni Ottanta e Novanta anche la Corea del Sud, una scossa tellurica altrettanto forte quanto quella degli anni Sessanta e Settanta con la modernizzazione, industrializzazione e ricostruzione nazionale.
In quattro sezioni dai titoli emblematici «Una nuova era di svolta e cambiamento di paradigma nell’arte», «Energizzare l’anticonformismo», «L’eterogeneità e il suo tempo e spazio critico» e «Interferire con o intervenire nel futuro» vengono documentate e storicizzate le opere di numerosi artisti contemporanei viventi.

Kim Beom, Bahc Yiso, Lee Dongi, Lee Yongbaek mostrano la torsione subita dalla realtà con l’utilizzo di nuovi materiali e nuove tecnologie come fa Kong Sunghun che in Blind Work dipinge con vernici fluorescenti dietro quattro tende che si muovono grazie a un motore elettrico producendo con l’uso di nastro di alluminio inattesi riflessi e movimenti di luci. Anche Choi Jeong Hwa, pioniere della Pop Art coreana, usa e gioca con materiali particolari, dai carrelli della spesa ai video al cibo ai fiori gonfiabili e ai loti diventati da simboli della purezza e della divinità simboli della mercificazione.

La distorsione della percezione visiva e il cambiamento nell’approccio narrativo matura con l’irrompere dei video e delle opere multimediali nell’arte degli anni Novanta, come succede con Kim Sejin, Park Hwayoung, Ryu Biho e Ham Yangah e con An Jungju che trasforma, cambia, ripete e segmenta immagini e suoni presi dalla vita quotidiana. Nota la sua installazione Hand in Hand with Amigos para Siempre del 2016, dove aveva distorto e disarticolato le canzoni e i video ufficiali dei Giochi Olimpici di Seoul e Barcellona del 1988 e del 1992.

E poi artisti come Koo Donghee, Kim Dujin, Kim Sangdon, Rho Jaeoon, Keum Hyewon, Roh Choonghyun e Jung Jaeho che si sono misurati con i cambiamenti, le contraddizioni e le criticità emerse nella società e nella vita quotidiana dei coreani. Negativo il giudizio del critico d’arte Andrew Russeth che ha valutato incompleto e ‘curiosamente apolitico’ l’intero progetto espositivo.

La bellezza altra secondo Byung-chul Han
È paradossale il fatto che il filosofo coreano Byung-chul Han non sia conosciuto in Corea del Sud quanto lo sia in Europa. Solo nel 2023 in Italia sono usciti tre suoi libri Infocrazia e Le non cose per Einaudi e Iperculturalità per Nottetempo. Eppure se si chiede di lui a Seoul o a Busan, non sanno dirti se le sue opere siano state tradotte in coreano; qualcuno dice che forse in passato ha provato a insegnare con pochi riconoscimenti nella Facoltà di ingegneria dell’Università di Seoul e per questo motivo ha deciso di emigrare in Germania. Tuttavia, leggendo i suoi libri non si può non avvertire una reazione allergica al turbo capitalismo, al consumismo, al conformismo culturale che impera tra il 38° parallelo e la Corea del Sud.

Basta trascorrere qualche ora nel quartiere Myeongdong di Seoul tra le boutique di lusso con i brand della moda globale, i negozi di cosmetica, i grattacieli che brillano di luci e di vetro, le bancarelle di street food per capire quanta connessione ci sia tra l’elaborazione teorica di Byung-chul Han e la società coreana che fa dell’iper, del plus, dell’oltre la cifra del suo esistere.

La Levigatezza e l’Uguale – dice Byung-chul Han in La salvezza del bello uscito nel 2019 – sono le due categorie dominanti nell’epoca dei like, dell’estetica del piacere, del dominio delle immagini, del trionfo dell’Io.

Levigate sono non solo le superfici specchianti della immensa foresta di grattacieli, veri e propri totem di luce e di vetro a protezione del dio denaro oppure gli hi-phone oppure ancora le auto che si muovono silenziose e seducenti nel traffico della megalopoli, ma levigati sono anche i volti e i corpi dei coreani e delle coreane addolciti e resi uguali e conformi da creme e maschere cosmetiche.

Eccoci dunque con l’Uguale e il Simile, l’Uniforme e il Conforme che espellono l’Altro da ogni discorso privato e pubblico. L’Altro esiste solo come specchio, immagine e simulacro di ciò che noi siamo. «L’Altro come mistero, l’Altro come seduzione, l’Altro come Eros, l’Altro come desiderio, l’Altro come dolore scompare. Dentro questo orizzonte il concetto di bellezza si identifica con quello di piacere, di eccitazione pornografica, bello è ciò che piace e che anestetizza. Scompare il bello come turbamento, come scossa, come forma e desiderio del cambiamento, come verità».

Non mi piace europeizzare la cultura coreana: intervista a Jong-Ho Lee


Lo si vede spesso nei festival di danza contemporanea, italiani e internazionali, un viaggiatore instancabile che fa la spola tra Seoul, l’Asia, l’Europa, il Sud e il Nord America e l’Oceania, e anche l’Africa. È fondatore e direttore artistico del SIDance (Seoul International Dance Festival) e presidente della sezione di Seoul dell’International Dance Council, CID-UNESCO. Giornalista e organizzatore di festival, ha iniziato la sua carriera con il settimanale francese Courrier de la Corée pubblicato in Corea. Ha lavorato per circa trenta anni come corrispondente e reporter per una delle principali società di comunicazione coreane, la Yonhap News Agency. La qualità migliore di Jong-Ho Lee è costruire reti con festival e teatri in vari continenti. Ha introdotto danzatori, coreografi e gruppi coreani sui palcoscenici internazionali di oltre 40 Paesi, promuovendo circa 130 produzioni. Lo abbiamo incontrato il mese scorso nelle vesti di direttore artistico del BPAM (Busan Performing Arts Market).

Ti conosciamo come direttore del festival SIDance di Seoul. Ora sei direttore artistico del BPAM di Busan. Perché Busan?
Busan è la seconda città più popolata della Corea del Sud con più di tre milioni di abitanti ed ha numerose risorse ambientali, infrastrutturali e culturali, se pensiamo alle foreste, alle spiagge più belle e più frequentate, al porto che è una infrastruttura per il trasporto del legno in tutto il continente asiatico, ai festival che si tengono in città, il più importante dei quali è il BIFF, Busan International Film Festival che non ha nulla da invidiare a Cannes o Venezia, come pure il Busan Fine Arts Festival, il Teatro dell’Opera e l’International Arts Center. Prima che finisse la guerra con il Giappone, la città è stata anche capitale della Corea. La gente di Busan ha un carattere aperto, è disposta alla convivialità. A loro piace conversare e bere soprattutto il soju, il principale distillato coreano, un whisky che non raggiunge i 20 gradi.

Dove vuole arrivare una città così ricca economicamente?
La città si è candidata per accogliere l’EXPO 2030 e vuole raggiungere dal punto di vista culturale gli stessi obiettivi e traguardi raggiunti a livello economico. Da qui l’idea di realizzare un vero e proprio mercato internazionale delle performing arts basato su valori autentici e su modelli innovativi, diversi da quelli già battuti dentro e fuori la Corea.

La Corea è un Paese in cui la cultura tradizionale è molto radicata e le arti performative contemporanee spesso dialogano con la tradizione. Certo, anche in Europa ci sono delle tradizioni, ma in Corea le forme di arte tradizionale e contemporanea sono molto diverse, qui c’è conflitto e armonia tra loro. Alcuni creatori trattano questi due generi separatamente, mentre altri spesso li mescolano. Questo avviene, ovviamente, perché in Corea, come in altri Paesi asiatici, c’è stata l’occidentalizzazione portata dalle truppe coloniali.

Ti vediamo spesso girare tra i festival europei. Ci sono esperienze ed esperimenti cui ti sei ispirato per progettare il BPAM?
Ovviamente sono sempre affascinato da Avignon off, Edimburg Fringe, Adelaide Fringe e tuttavia intendo superare qualsiasi allineamento ai modelli e alle programmazioni occidentali che si possono vedere in qualsiasi parte del mondo. Non mi piace ‘europeizzare’ la cultura coreana. È il motivo per cui quest’anno il 90% del programma è basato su produzioni coreane, sul sostegno agli artisti coreani, sulla necessità di farli conoscere nel mondo, di fare networking, di realizzare coproduzioni, come abbiamo fatto con lo spettacolo Koreality prodotto con la Germania.

Come sarà BPAM 2024?
Il BPAM 2024 sarà molto diverso per l’organizzazione e per la programmazione artistica. Innanzitutto presenterà tutti i generi artistici (teatro, danza, world music, musica etnica, opera in un atto, arti tradizionali, spettacoli per bambini, rivista, circo e spettacoli di magia) e presenterà opere provenienti da tutti i Paesi e continenti, come Asia, Africa e America Latina, oltre che Europa e Nord America. Sarà un’opportunità per il pubblico di apprezzare una varietà di arti performative difficili da vedere in altri festival, mentre per i professionisti diventerà un vero e proprio mercato internazionale per programmare opere provenienti da tutto il mondo.

Conosci bene la danza contemporanea italiana. Ci sono degli artisti che più hai seguito e che ti hanno interessato in questi anni? Perché?
Osservo da tempo Aterballetto e Spellbound, e coreografi come Roberto Castello e Silvia Gribaudi, ma anche Francesca Foscarini, Luna Cenere, Jacopo Jenna, Teodora Castellucci, Marco d’Agostin, Collettivo Cinetico, Davide Valrosso, Andrea Costanzo Martini, coreografi di mezza età e più giovani come Pietro Marullo, Irene Russolillo e Daniele Ninarello. È difficile spiegare queste preferenze estetiche, tutti hanno una personalità diversa rispetto ai coreografi di altri Paesi europei.
E credo che, non so come e perché, fattori esterni come la società e l’ambiente naturale influiscano certamente su un linguaggio come la danza contemporanea. Tuttavia, le loro opere hanno un fascino unico. In Asia, la danza contemporanea italiana è meno conosciuta rispetto a quella di altri Paesi europei, e questo è un peccato.