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Centotre missili Usa nel cielo di Damasco. Russia: conseguenze

Centotre missili Usa nel cielo di Damasco. Russia: conseguenzeIl centro di ricerca di Barzeh, a Damasco – Ap

Siria Nella notte Usa, Francia e Regno unito attaccano tre siti in Siria, senza indagini internazionali né mandato delle Nazioni unite. Per il Pentagono finisce qui, ma la Casa bianca e l’Eliseo minacciano altri raid «se necessari». Manifestazioni di protesta contro l’aggressione nella capitale e a Ghouta est

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 15 aprile 2018

«Mission accomplished». Per celebrare l’attacco alla Siria, Donald Trump usa le infauste parole del suo predecessore repubblicano George W. Bush che 15 anni fa da una portaerei dava per vinta la guerra unilaterale all’Iraq. La guerra proseguì a Baghdad, prosegue ancora. Quella che si (ri)aperta ieri in Siria, con i 103 missili Tomahawk piovuti su Homs e Damasco, è la nuova fase di una guerra globale, il messaggio del fronte anti-Assad a Russia e Iran: il conflitto non può terminare con la vittoria dell’asse Mosca-Teheran-Damasco.

Mentre Trump alle 21 ora locale, le 3 in Italia, annunciava il via alle operazioni congiunte di Usa, Francia e Gran Bretagna, i primi missili erano già partiti. Un’ora di attacco, le esplosioni hanno svegliato Damasco. Una trentina sono arrivati a destinazione, 71 sono stati intercettati dalla contraerea siriana.

I tre target erano quelli attesi, come attesa era la previa comunicazione al Cremlino: ieri mattina gli Stati uniti hanno confermato di aver notificato l’attacco alla Russia. I raid hanno centrato il centro ricerche di Barzeh a Damasco, un sito militare e un centro di comando a Homs, che – secondo il Pentagono – erano tutti utilizzati per la produzione e lo stoccaggio di gas. Un programma, aggiunge la Difesa Usa, che ora necessiterà «anni» per riprendersi.

Una pioggia di missili mirati, poi la calma. Manifestazioni contro l’attacco si sono svolte a Damasco e a Douma, la principale città di Ghouta est, il luogo – secondo Washington, Parigi e Londra – teatro di un presunto attacco chimico, una settimana fa, da parte del governo: la gente è scesa in strada sventolando bandiere siriane mentre gli ultimi miliziani salafiti di Jaysh al-Islam lasciavano il sobborgo, secondo l’accordo di evacuazione siglato domenica scorsa con Damasco.

Ed è stato proprio Jaysh al-Islam, secondo fonti della Bbc, a commentare per primo nel fronte variegato delle opposizioni siriane l’attacco a guida Usa: «insignificante», secondo il suo leader Mohammed Alloush, perché non ha in alcun modo danneggiato il governo.

Diversa la posizione degli aggressori: ieri Francia e Gran Bretagna davano per distrutta «buona parte dell’arsenale chimico» del governo, senza fornire dettagli sulla sua esistenza e grandezza (e senza ricordare che nel 2014 l’Onu certificò lo smantellamento dell’arsenale chimico siriano).

Ma dopotutto, come ha tenuto a sottolineare la premier britannica May, la neonata coalizione non aveva bisogno di indagini indipendenti per agire, le bastano foto e video delle opposizioni al governo siriano. Eppure, proprio ieri il team dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac, vincitrice del Nober per la Pace nel 2013), giunto in Siria su invito di Damasco, ieri avrebbe dovuto iniziare a lavorare a Douma, per raccogliere campioni e verificare l’eventuale uso di gas.

Un tempismo che Iran e Russia hanno fatto notare: l’attacco, dicono le due capitali, è servito a impedire l’inchiesta, a rallentarla. In ogni caso l’Opac fa sapere che la missione va avanti. Come potrebbe andare avanti (o forse no) l’attacco occidentale. Se il Pentagono ieri dava per compiuta la missione, Trump – particolarmente gongolante ieri notte mentre annunciava i bombardamenti – si lasciava spazio di manovra.

La politica Usa, diceva la Casa bianca, è «flessibile», altri «attacchi deterrenti» (sic) seguiranno se necessario. Si accoda il ministro della Difesa francese Le Drian che paventa nuovi interventi nel caso di altri attacchi chimici. Visto che le tre potenze non necessitano di prove, non è detto dunque che i missili non tornino a volare se la «linea rossa» invalicabile la stabiliscono Casa bianca, Eliseo e Downing Street.

Reagisce il presidente Assad, dal palazzo presidenziale: «I raid dimostrano il fallimento dell’Occidente, l’aggressione non condizionerà la determinazione del popolo siriano e delle sue forze armate nel distruggere il terrorismo in ogni angolo del paese». Dichiarazioni in linea con quelle degli alleati che hanno promesso risposte: «Tali azioni non saranno senza conseguenze», ha detto l’ambasciatore russo negli Usa Antonoy; «Sono responsabili delle conseguenze regionali», il commento del ministero degli Esteri iraniano.

E mentre l’esercito di Mosca annunciava l’invio di nuovi sistemi missilistici di difesa S-300 alla Siria, Putin definiva l’azione l’aggressione a un paese sovrano e una violazione del diritto internazionale perché realizzata senza mandato Onu, per poi chiedere una riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza che si è svolta nel pomeriggio.

Qui si è svolto lo scontro diplomatico. L’ambasciatore russo Nebenzia ha accusato gli Usa di minare l’autorità del Consiglio di Sicurezza: «Imparino che il codice internazionale di comportamento sull’uso della forza è regolato dalla Carta Onu». Rispondono l’ambasciatore di Londra che definisce l’intervento «umanitario, giusto e legale» e il falco Usa, l’ambasciatrice Haley, che giustifica l’attacco con quello che ritiene il fallimento della diplomazia.

Strumento, quello diplomatico, che hanno ritirato fuori Parigi e Berlino, annunciando ieri l’introduzione di un nuovo formato di negoziati, alternativo a quello Onu di Ginevra e a quello di Astana (guidato da Russia, Turchia e Iran), su cui i missili di Trump sono caduti tanto quanto su Damasco.

Affondata anche la risoluzione, presentata da Mosca, di condanna dell’attacco: tre a favore (Russia, Cina e Bolivia), otto contrari, quattro astenuti.

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