Cedu: «Lo scrittore turco Altan detenuto senza prove»
Turchia La Corte europea dei diritti dell'uomo multa Ankara: processo iniquo e violazione del diritto di espressione del giornalista e romanziere, in carcere dal settembre 2016. Ma nella sentenza manca il richiamo alla natura politica della sua condanna
Turchia La Corte europea dei diritti dell'uomo multa Ankara: processo iniquo e violazione del diritto di espressione del giornalista e romanziere, in carcere dal settembre 2016. Ma nella sentenza manca il richiamo alla natura politica della sua condanna
«Continuerò a dire la verità. Ho detto la verità tutta la vita. Non sono il genere d’uomo che agisce per vigliaccheria e sperpera i tanti decenni che ha già vissuto per amore dei pochi anni che gli rimangono». Così Ahmet Altan, di fronte al pubblico ministero che dopo il tentato golpe del 2016 lo accusava di avervi preso parte, si sollevava sopra l’aula di tribunale con tutta la sua statura di uomo libero e di giornalista.
In prigione dal primo settembre 2016, Altan è tra i più noti scrittori e giornalisti turchi. Ieri è stata la Corte europea dei diritti dell’uomo a trattare il suo caso, insieme a quello del giornalista Murat Aksoy, rispondendo a una condanna pretestuosa con una condanna puntuale: incarcerandolo la Turchia, dice la Corte nella sentenza, ha violato i suoi diritti alla libertà, alla sicurezza e a un processo equo e la sua libertà di espressione. Perché la libertà di svolgere il suo lavoro è il cuore della durissima pena inflittagli dal sistema giudiziario turco: avrebbe inviato messaggi subliminali pro-golpe durante un programma tv andato in onda mesi prima.
Un’accusa da romanzo distopico che gli è costata prima una condanna all’ergastolo aggravato (senza possibilità di sconti di pena) nel 2018, stracciata in appello nel 2019, e poi un nuovo processo concluso con una pena di 10 anni e mezzo di prigione per sostegno a organizzazione terroristica (il movimento Hizmet dell’imam Fethullah Gulen). Fuori dal carcere ha trascorso appena un giorno, meno di 24 ore di rinnovata libertà prima di essere riarrestato. Lo scorso 2 marzo ha “festeggiato” i suoi 71 anni dentro il famigerato carcere di Silivri, nuova casa dei prigionieri politici turchi.
«La Corte – si legge nella sentenza emessa ieri a Strasburgo e che condanna la Turchia a pagare 16mila euro in danni ad Altan – ha trovato che le critiche del richiedente all’approccio politico del presidente (Erdogan) non possano essere intese come la prova che fosse a conoscenza del tentato golpe in anticipo. Per questo la logica applicata al caso dalle autorità non può essere considerata una valutazione accettabile dei fatti». Insomma, pur non spingendosi a definirla una crociata politica, per la Corte dietro la detenzione non c’è alcuna giustificazione legale né sospetti ragionevoli della commissione di un reato.
«Altan è stato arrestato perché era nel mirino del potere politico e dei media vicini al governo – il commento dell’avvocato del giornalista Veysel Ok – La Corte ha stabilito che la sua detenzione non è politica. In questo senso, è mancante».
Se da Ankara al momento non giungono reazioni, è difficile immaginare che Altan sia rilasciato. La Turchia, colpita da più di una condanna della Corte europea, procede come uno schiacciasassi, ignorandole una a una, a partire da quelle che chiedono il rilascio di avversari politici di primo piano, dal filantropo Kavala al politico curdo Demirtas (la cui ultima denuncia contro l’impedimento a relazioni sociali con altri detenuti è stata però rigettata dalla Cedu)
E procede anche nelle epurazioni e i processi di massa, giustificati con il tentato golpe del 15 luglio 2016. La scorsa settimana la 19a Corte penale di Ankara ha condannato 149 dei 497 imputati per il putsch a pene detentive sopra i sei anni, compresi 32 ergastoli aggravati. Una mannaia giudiziaria che ha fatto da stampella a circa 134mila licenziamenti di dipendenti pubblici di vari settori (magistratura, accademia e scuola, forze armate, sanità).
Persone cancellate dal governo che, denunciava in un articolo dello scorso anno il tedesco Deutsche Welle, non riescono a trovare un lavoro o un po’ di giustizia: dei 126mila che hanno fatto appello alla Commissione allo stato di emergenza per riavere indietro il posto di lavoro, solo 9.600 hanno vinto, mentre 28mila all’epoca erano ancora senza risposta. Al loro posto fedelissimi del governo e dei partiti della maggioranza, presenze che hanno stravolto la geografia politica del paese.
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