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Cavarero, quella risata è femminile

Cavarero, quella risata è femminilePenelope interpretata da Irene Papas nell’Odissea televisiva di Franco Rossi, 1968

Studi sul pensiero classico Penelope, Demetra, Diotima, e la servetta di Tracia che irrise Talete: torna (Castelvecchi) "Nonostante Platone" il libro di Adriana Cavarero che nel 1990 sfidava la metafisica occidentale

Pubblicato circa un anno faEdizione del 30 luglio 2023

L’aneddoto è noto, lo racconta Platone, e nella sua brevità compone un affresco così conosciuto da esser divenuto proverbiale: «Talete, mentre stava scrutando le stelle e guardava in alto, cadde in un pozzo. Allora una servetta di Tracia, garbata e graziosa, rise dicendogli che si dava un gran da fare a conoscere le cose del cielo, ma le cose che gli stavano dappresso, davanti ai piedi, gli rimanevano nascoste». Non c’è inciampo nella storia della filosofia – dopo tutto non così tragico dato che la pozza era solo una cisterna d’acqua – che non sia costato così tanta fatica teorica.

Non solo a Talete si intende, ma anche a Heidegger, a Gadamer, passando per Blumenberg, tutti variamente impegnati a salvare questo filosofo svagato, gaglioffo e con la testa letteralmente per aria, dall’imprevisto bagno d’acqua. Così, a turno, i filosofi hanno vantato la natura precipua della filosofia che rivolge la propria ricerca a oggetti non svelati, l’audacia teorica di chi usa il pozzo per osservare gli astri celesti, o ancora il fatto che a irridere la filosofia sia un personaggio proveniente dalla Tracia, quindi zotico e ignorante per antonomasia, incapace di cogliere i volteggiamenti del pensiero.

Significativo che a essere eliso ogni volta dalle riflessioni di questi filosofi è il sesso di questa servetta, detta garbata e graziosa, come anche il suo riso, derubricato a insignificante incontinenza di un volgo contrapposto alla sapiente seriosità posseduta dai filosofi maschi. Come se il fatto che la servetta fosse di sesso femminile tradisse semplicemente l’impalcatura maschilista su cui si sorregge la filosofia greca, ma non avesse conseguenze decisive sulla tradizione del pensiero. La filosofia infatti, si sa, è sempre questione di logos e di significanti: incompatibile dunque con quella leggerezza della risata che manda a gambe all’aria ogni pretesa di senso.

Si deve ad Adriana Cavarero l’aver rubato al testo platonico la figura della servetta e averla posta al centro di una prospettiva filosofica che sfida l’intera metafisica occidentale: nei suoi presupposti come nei suoi cascami e inutili gravami. Il testo, uscito nel 1990 con il titolo di Nonostante Platone, oltre a essere assurto a caso editoriale in Italia – come testimoniano le diverse edizioni che sono seguite in questi trent’anni – è diventato un successo internazionale, con traduzioni in inglese, tedesco, turco. Adesso è da poco tornato in libreria (pp. 135, euro 16,50) con Castelvecchi, che sta riproponendo al pubblico italiano tutte le opere di Cavarero: A più voci (2021), Tu che mi guardi, tu che mi racconti (’22), Orrorismo (’22).

Il testo può essere letto come una contro-storia della filosofia che alla centralità della morte o all’essere-per-la morte oppone la categoria di natalità. Quello che lo sguardo all’insù di Talete sta infatti cercando sono le idee, le cose che eternamente sono, quel mondo intaccato dall’apparire mutevole delle cose, dalla natura contingente, diveniente, innanzitutto apparente di ogni ente. È per questo che il corpo, per chi si immagina già librare a mezz’aria verso quel regno dell’incontaminato pensare, viene considerato inutile zavorra, scomodo bagaglio, forzoso gravame: prigione di quell’anima intellettiva che solo nell’eterno trova la propria dimora.

Il promesso sollievo della risata della servetta – sostiene Cavarero con un’opportuna forzatura filologica – al contrario interviene opponendo la resistenza della realtà a ogni sua intellettuale cancellazione. Difatti, sostiene la filosofa, la derealizzazione del mondo – cioè il fatto che la filosofia fin dai suoi esordi non si curi nemmeno delle pozze d’acqua che gli stanno sotto i piedi – si accompagna da sempre alla preminenza che la filosofia accorda alla morte. Solo la morte infatti, per i filosofi, può liberare l’essere dalla catena che lo tiene inchiodato al suolo (nella versione platonica); o solo la morte (nella versione parmenidea) è capace di mostrare che il niente, nel quale ogni essere definitivamente scompare, è la vera destinazione del divenire, l’intima sostanza di ogni ente. Non è un caso che, da Omero in poi, i viventi vengono costretti sotto il nome di «mortali»: ovvero quegli esseri la cui finitezza è elemento caratterizzante della vita, mentre la nascita è dato insignificante, privo di valore.

Al contrario, sostiene Cavarero, la servetta tracia ride della menzogna fondativa dell’Occidente perché sa bene che è impossibile separare il pensare dal corpo, tenere distanti, come dicono i filosofi, il luogo della verità dal mondo della vita, l’universale dal contingente, l’eterno dal caduco, la scienza dall’apparenza. O più semplicemente, memori del ruzzolone di Talete, potremmo dire: tenere separati il pensiero da quella dura terra sotto i piedi che ci può sempre far inciampare o inghiottire.

E lo sa bene la servetta perché da donna ha fatto esperienza o può fare esperienza del generare: ovvero di quel venire al mondo che, lungi dall’essere un «venire dal niente» come dicono i filosofi, è un venire da una specifica madre, la quale decide ogni volta della sua potenza generativa come sua inerente possibilità. Inscritta nella sua physis, nel corredo fisiologico di ogni madre, vi è infatti il decidere – o l’astenersi – dal mettere al mondo un essere singolare nuovo, la cui filiazione proviene non da un generico nulla, ma dall’infinita sequenza di generazioni di madri che hanno deciso di prolungare questo continuum materno dell’esistenza. Tale innegabile matrice femminile dell’umano apparire è un fatto originario, il duro fatto dell’esistere: un duro fatto al pari di quel pozzo che il filosofo vorrebbe cancellare.

Questa precisazione fondamentale permette a Cavarero di spiegare, in opposizione al paradigma patriarcale del nulla e della morte negati dall’eterno e immutabile sovrasensibile del pensiero, che prima e oltre la physis non c’è nulla, dal momento che la sola realtà in cui ciascuno esiste, ed è fatto esistere, è la sconfinata varietà dei modi di essere e apparire dei viventi reso possibile dalla madre, che li comprende tutti quale matrice universale e singolare. All’interno di tale innegabile matrice materna, pensiero e vita come anima e corpo si intrecciano e sono tutt’uno, senza più alcun oltre, in una dimensione di immanenza senza trascendenza, di individuale senza universale, di temporalità senza eternità.

Se il riso di una servetta può sembrare poca cosa per mandare all’aria l’impianto metafisico dell’Occidente, Cavarero nel suo libro convoca altre figure femminili che situate ai margini del testo platonico indicano non solo i primi segnali di separatismo e autonomia femminile della storia, ma anche questo intreccio di corpo e anima, pensiero e nascita, che solo le donne sanno tessere.

Si porta l’esempio di Penelope la quale, contrariamente agli eroi omerici che sacrificano il proprio corpo nell’agone mortale per guadagnarsi l’immortalità, preferisce non l’eternità promessa dalla gloria del racconto ma la ripetizione della tessitura della tela che rischia il suo durare nell’attenzione di ogni gesto, nello sguardo complice di ogni ancella. O ancora di Demetra, la divinità a cui viene sottratta la figlia da Ade, che simbolicamente rappresenta il matricidio originario, il momento in cui lo sguardo maschile interrompe la relazione tra madre e figlia e intrappola la figlia della divinità della natura nel mondo degli inferi, nello spazio dominato dalla morte.

Questo matricidio simbolico ci dice che gli uomini, così esclusi dal generare la vita, privi della potenza femminile, si rifugiano nella morte, che tentano costantemente di oltrepassare o con il pensiero dell’eterno o con l’azione valorosa che concederà l’immortalità.

Se si mantiene lo sguardo fisso sulla morte, spiega Cavarero, emerge l’incubo del nulla dal quale l’uomo è indotto a cercare rimedio nella metafisica. Al contrario, osservando i gesti di Demetra, Penelope, Diotima di Mantinea, Cavarero promuove il superamento della litania greca del venire da niente e ritornarvi, indicando nella figura dell’io onnipotente e separato dal corpo – l’io maschile che si concepisce eterno e indipendente, e tuttavia minacciato da quel nulla che il pensiero della morte gli ripropone senza sosta – uno dei suoi principali risultati. Dal nulla nasce la metafisica quale via di salvezza di un logos sorto dal matricidio simbolico; dalla risata una filosofia che si libera dall’angoscioso vicolo dominato dalla morte e può finalmente dirsi leggera.

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