Nel rapporto «Ccs, l’ennesima falsa promessa di Eni» (scaricabile qui) Greenpeace e ReCommon bocciano come greenwashing la tecnologia della cattura e stoccaggio del carbonio (l’acronimo in inglese è appunto Ccs), sulla quale punta il cane a sei zampe. La Ccs e la Ccus (cattura, stoccaggio e utilizzo del carbonio) sono processi progettati per essere applicati ad attività ad alte emissioni: centrali termoelettriche a carbone o a gas, cementifici, acciaierie, distretti industriali, impianti petrolchimici. L’anidride carbonica viene intercettata prima di essere rilasciata in atmosfera, poi compressa allo stato liquido, trasportata e infine stoccata in depositi sotterranei, su terra o in mare. Eni si prepara a lanciare una nuova società che raggrupperà le attività di Ccs e intende fare dell’Italia l’hub di CO2 nel Mediterraneo. Oltre ai progetti all’estero, c’è Ravenna Ccs, promosso da una joint venture tra Eni e Snam. Il rapporto ambientalista: «Secondo i promotori, lo sviluppo industriale della Fase 2, dal 2027, consentirà di raggiungere una capacità di stoccaggio di 4 milioni di tonnellate all’anno entro il 2030; ulteriori espansioni potranno portare i volumi fino a 16 milioni di tonnellate di CO2 all’anno».

Una cifra che è «meno del 5% della CO2 immessa in atmosfera nel nostro paese» e oltretutto è davvero ottimistica, a giudicare dalla performance degli impianti norvegesi di Sleipner e Snøvit16, oggi tra i pochissimi al mondo funzionanti (e che utilizzano pozzi di gas esauriti, come proposto a Ravenna). Queste tecnologie, sottolinea il rapporto di Greenpeace e ReCommon, «sono proposte come alternativa all’abbandono completo dei combustibili fossili, in grado di svolgere un ruolo cruciale nell’evitare un cambiamento climatico catastrofico».

Commentando il rapporto dell’Iea – Agenzia internazionale dell’energia «The Oil and Gas industry in Net Zero transitions» (novembre 2023), il direttore dell’Agenzia Fathi Birol rivolgendosi all’industria ha esortato ad «abbandonare l’illusione che la cattura di quantità inverosimili di carbonio sia la soluzione». Corrisponde allo 0,12% delle emissioni globali, la quota di CO2 (45 milioni di tonnellate) annualmente sequestrata in depositi geologici nel mondo, secondo dati Iea. Per avere un impatto significativo nella lotta ai cambiamenti climatici, la capacità di sequestro con questa tecnologia dovrebbe attestarsi attorno ai 12 miliardi di tonnellate l’anno (un livello 260 volte superiore all’attuale).

Ma i fallimenti (alcuni dei quali bollati anche dalla Corte dei Conti europea, visto che sono gli Stati a mettere il denaro) sembrano costellare 50 anni di storia della Ccs, con svariati progetti abbandonati per i costi e i problemi tecnici. Le stesse aziende fossili promuovono le tecnologie Ccs ma nei documenti privati ne lamentano l’onere economico.

Enorme il costo energetico e idrico: è stato stimato che una diffusione capillare della Ccs – su scala sufficiente a sequestrare 21-47 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno entro il 2100 e a raggiungere l’obiettivo di 1,5 gradi – potrebbe raddoppiare l’attuale consumo di acqua globale.

Greenpeace e ReCommon spiegano: «Il comportamento a lungo termine di enormi quantità del CO2 iniettate nel sottosuolo resta caratterizzato da una notevole incertezza». I rischi? Ne sappiamo poco, sul lungo termine, ammette il rapporto. Ma «terremoti correlati all’iniezione di CO2 nel sottosuolo sono avvenuti in diversi siti negli Usa, Algeria, Canada e nel Mar del Nord, con una magnitudo anche superiore a 5». La costa ravennate e la Romagna sono zone sismicamente attive.