Cattafesta: «Finalmente libera dopo 10 giorni nella casa delle lacrime»
Turchia Intervista a Cristina Cattafesta, l’attivista italiana arrestata a Batman il 24 giugno e detenuta in un centro di deportazione: «Ci sono donne, bambini, curdi, ex membri di Daesh. Senti piangere continuamente»
Turchia Intervista a Cristina Cattafesta, l’attivista italiana arrestata a Batman il 24 giugno e detenuta in un centro di deportazione: «Ci sono donne, bambini, curdi, ex membri di Daesh. Senti piangere continuamente»
Dodici giorni di detenzione e finalmente ieri Cristina Cattafesta è stata rilasciata dalle autorità turche. È rientrata in Italia, nella sua Milano, accolta dalla festa di famiglia e amici.
Sessantadue anni, attivista di lungo corso, presidentessa di Cisda (Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane), era stata fermata il 24 giugno, giorno delle presidenziali e le parlamentari (anticipate) turche. Si trovava a Batman su invito dell’Hdp, il Partito democratico dei popoli, per monitorare il voto – a rischio brogli – nel sud est a maggioranza curda.
Cattafesta è stata arrestata a urne aperte e dopo due giorni in prigione è stata trasferita in un centro di deportazione a Gaziantep. Isolata, senza telefono né informazioni sul suo caso. Fuori, in Italia, si mobilitavano – oltre alla Farnesina – la sua Cisda, l’Arci di cui è membro, tante associazioni e singoli individui. Ieri l’atteso rilascio: Cristina non potrà rientrare in Turchia per cinque anni ma è libera. L’abbiamo raggiunta ieri al telefono.
Cristina, bentornata.
In quel centro di detenzione mi sono sentita abbandonata, non sapevo nulla della grande mobilitazione che avveniva in Italia. Ma oggi ho saputo tutto: è incredibile, la lettera di Giuliana Sgrena, associazioni, esponenti politici da cui non me lo sarei aspettata. E la Farnesina che ha avuto un ruolo fondamentale: hanno chiesto tre volte di potermi incontrare ma le autorità turche non lo hanno mai permesso.
Ti hanno tenuto all’oscuro dello sviluppo del tuo caso?
Mi hanno sequestrato il telefono subito, me lo hanno riconsegnato solo in aeroporto, scarico. Ho capito che avevano cancellato l’accusa di terrorismo grazie a una telefonata. Mi spiego. Al centro di deportazione c’è la lista dei nomi dei presenti e davanti a ognuno una sigla che indica perché ti trovi lì: la mia sigla indicava terrorismo. Chi è accusato di terrorismo può telefonare solo il mercoledì, per dieci minuti e a un solo numero. Ma lunedì scorso mi hanno detto che potevo fare una telefonata. E ho capito che non ero più una «terrorista». Una compagna di detenzione si è rivolta a una guardia che ha confermato: il governo aveva cancellato l’accusa di terrorismo. Ma a me non hanno detto nulla. Se chiedi rispondono che devi aspettare e rimandano sempre a domani.
Quali sono le condizioni di vita in un centro di deportazione turco?
Condizioni difficilissime. Fisicamente non stai male: ti danno cibo e acqua, il posto è pulito, ma siamo come polli di allevamento, psicologicamente è terribile. Non ci sono libri, passi il tempo sul letto. Lo chiamano «la casa delle lacrime», perché lì senti persone piangere di continuo. Ci sono donne sole o con bambini, ma anche famiglie, molte provenienti da Siria e Iraq. Ci sono europee arrivate in Siria con l’Isis. Ci sono curdi accanto a ex membri di Daesh: scoppiano spesso delle risse. E c’è chi tenta il suicidio. In teoria si può restare lì fino a sei mesi ma ci sono persone detenute in attesa dell’espulsione da molto più tempo.
Una ragazza mi ha colpito particolarmente: laureata, da anni in Turchia dopo essersi trasferita con la famiglia da un paese vicino (non indichiamo nome né luogo di provenienza per ragioni di sicurezza, ndr), arrestata mentre rinnovava la carta di identità. È da otto mesi nel centro di deportazione di Gaziantep. Non sa nulla del suo destino. Meglio il carcere: almeno ti dicono qual è la tua colpa e quanto durerà la pena.
Perché ti hanno accusata di terrorismo?
Ero lì con l’Hdp, per Cisda siamo andati in sei a fare da osservatori del voto. Quando ci hanno fermato, eravamo per strada, nemmeno davanti a un seggio. Era già successo in passato che mi fermassero, a Diyarbakir. Forse il mio nome era segnalato. Le accuse? Ridicole: mi mostravano le immagini del mio profilo Facebook, delle manifestazioni a cui ho preso parte a Milano, addirittura il volantino elettorale con cui mi sono presentata alle municipali. Ma io sono un’attivista, ho di tutto sul mio profilo Fb, dal Pakistan all’Afghanistan fino alla Colombia.
In realtà vogliono solo fare terra bruciata della solidarietà internazionale: quando i popoli saranno soli, potranno davvero fare quello che vogliono. Della Turchia è questo che fa paura: ti sbattono dentro e non sai perché.
Accade ogni giorno in un centro come Gaziantep?
Esattamente. Dopo due notti passate in prigione, il giudice ha emesso il decreto di espulsione e mi hanno portato in quel centro. Senza le pressioni di cui ora vengo a conoscenza, mi avrebbero tenuto lì per mesi, avrebbero messo la mia pratica in fondo alla pila e sarei stata dimenticata. C’è chi si trova lì da molto più tempo dei sei mesi previsti per legge. A cosa serve tenere lì le persone? O le arresti o le rilasci. Ma loro vogliono una terza cosa: distruggerli psicologicamente prima di espellerli.
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