Di seguito la testimonianza dell’attivista palestinese Omar Ghrieb che abbiamo raccolto al Cairo.

Non riusciamo a superare quanto successo il 7 ottobre. Non ricordo nella mia vita qualcosa di simile a quello choc. Dopo l’attacco ci siamo detti: durerà qualche giorno. Ma tre giorni sono diventati una settimana e una settimana sono diventate due. E due settimane sono diventate mesi.

ABBIAMO iniziato a ricevere ordini di evacuazione. Io vivevo a ovest di Gaza. All’inizio abbiamo deciso di restare. Poi una notte è arrivata la «cintura di fuoco». La chiamiamo così, quando l’aviazione israeliana inizia a bombardare a circolo, intorno a una certa area. È un bombardamento cieco: non prende di mira una determinata strada o un edificio. Quella notte le finestre e le porte della nostra casa sono saltate.

Abbiamo deciso di evacuare verso sud, verso Deir al-Balah. Siamo rimasti una settimana: anche lì c’erano raid aerei e allora siamo rientrati a casa nostra. Due notti dopo, un’altra cintura di fuoco. Ma stavolta è stato peggio: era freddo, era inverno, non avevamo più finestre. Tutti i nostri vicini si sono radunati in un edificio, al primo piano. Pensavamo: è la fine. Come potremo sopravvivere?

Siamo sopravvissuti e il giorno dopo siamo ripartiti verso sud. Prima a Deir al-Balah, poi ad Al-Mawasi. Siamo arrivati nell’area che era stata definitiva zona umanitaria sicura e che poi è stata colpita. Abbiamo vissuto come tutti gli altri: in una stanza in cinque persone. Condividevamo il bagno con altre sei famiglie. L’acqua era scarsa. Non c’era internet né elettricità o telefono.

Era pericoloso provare a reperire i beni necessari. Quando sei circondato da altre persone, per qualche motivo, ti sembra di essere al sicuro. Ma non è così. I palestinesi non sono forti come molti pensano. È che siamo costretti a essere forti, non abbiamo scelta. Questo ci rende intraprendenti.

Se volete descriverci, non dite che siamo forti, dite che siamo ingegnosi. Lavoriamo come comunità per sostenerci a vicenda, impariamo a connetterci, a conoscere l’area in cui si ritroviamo a vivere: i modi più facili per raggiungere senza troppi rischi un piccolo supermarket o un pezzo di terra dove hanno piantato delle verdure. Nella mia zona c’era un piccolo supermarket che aveva ancora qualcosa da vendere o da regalare. Ha chiuso cinque o sei volte per riaprire da un’altra parte: il proprietario è stato minacciato dall’esercito.

Condividiamo risorse e conoscenze, ricordando che sono risorse di tutti, devi tenerne conto. Se oggi qualcuno nel quartiere fa il pane, lo condivide. Domani saremo noi a portare il pane. Perché non c’è gas, l’unico modo è cuocerlo sul fuoco o bruciare la plastica. È orribile per la salute e per l’ambiente, lo so. L’80% della produzione locale è stata distrutta. E quel che resta non è in grado di rispondere ai bisogni di tutti.

C’è chi rischia e prova a raggiungere i mercati più grandi dove arriva un po’ di frutta e verdura. Ma non c’è gas, le auto non si possono usare spesso. Ci vai con l’asino. Vi dico la verità, è un’esperienza, non pensavo di divertirmi sopra un asino.

ORA LA SITUAZIONE è peggiorata. Siamo sul baratro della carestia a sud, non riesco nemmeno a immaginare cosa accade a nord. Anche gli animali stanno morendo di fame o bombe. I palestinesi hanno un legame indistruttibile con la terra, con i campi e le greggi. Per questo tante famiglie condividono il cibo con gli animali, anche con i cani e i gatti di strada. C’è un rifugio per animali a Gaza, è ancora aperto nonostante tutto.

Sono questi piccoli dettagli a far pensare. Come il fatto che siamo diventati esperti militari senza volerlo. Tutti noi, anche i bambini di cinque anni, sanno riconoscere che tipo di bombardamento è quando lo sentono. Se è vicino, se è lontano, se è una bomba o se è un missile. Siamo diventati esperti militari, quante offensive abbiamo nel nostro curriculum? E stavolta è mille volte peggio.