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Carne di elefante contro la fame

Carne di elefante contro la fame

Namibia Siccità e scarsità di cibo hanno portato il governo alla decisione di abbattere 723 animali selvatici grandi erbivori per sfamare la popolazione

Pubblicato circa un mese faEdizione del 6 settembre 2024

Il piccolo era caduto in un pozzo superficiale secco mentre cercava disperatamente acqua nel parco Hwange (Zimbabwe). Luglio 2019. L’elefantino era stato salvato dai guardaparco, chiamato Jack e accudito. In quel periodo di siccità 200 elefanti, fra gli altri animali selvatici, erano morti nell’area protetta, malgrado i tentativi di abbeverarli grazie ai pozzi a energia fotovoltaica. Nel 2023-2024 l’emergenza si è ripresentata, estesa a quasi tutta l’Africa meridionale (e in Kenya). La più acuta siccità degli ultimi 100 anni colpisce la Namibia.

È L’EFFETTO del fenomeno climatico El Niño che surriscalda le acque oceaniche, sommato all’innalzamento globale delle temperature. Nel paese le riserve di cibo sono quasi esaurite. Metà della popolazione si trova in uno stato di grave insicurezza alimentare. Così il governo ha deciso (operazione in corso) di abbattere 723 animali selvatici grandi erbivori: 83 elefanti, 300 zebre, 100 gnu, 150 antilopi, 60 bufali e 30 ippopotami, per distribuire tonnellate di carne alla popolazione. Tre le ragioni evocate dalle autorità. Primo: mancanza di cibo per gli umani. Secondo: in alcuni parchi e aree, eccessiva presenza di fauna selvatica rispetto alle risorse di acqua e di cibo. Terzo: possibile acuirsi, nella siccità, dei problemi di convivenza tra le colture alimentari e gli elefanti erranti in cerca di cibo e acqua. Guerra fra poveri.

La Namibia non è un posto qualunque, per la fauna selvatica e i suoi habitat. Fra i primi paesi africani a inserire la protezione della natura nella Costituzione ha creato insieme a Zimbabwe, Angola, Botswana e Zambia l’Area di conservazione transfrontaliera Kavango-Zambesi (Kaza-Tfca), la più grande al mondo e ricca di 227.900 elefanti (Kaza Elephant Survey, 2022).

Commenta Isabella Pratesi, che guida il programma Conservazione di Wwf Italia: «Oggi persone e animali sono alla fame e alla sete; le scelte da fare sono certo molto difficili. Va però sottolineata l’origine antropica di questi disastri intensificati e ripetuti. A pagare sono le popolazioni più fragili e quello che rimane di una fauna selvatica che abbiamo ridotto ai minimi termini». Secondo il Wwf, in meno di 50 anni il mondo ha perso il 69% delle popolazioni selvatiche di vertebrati. L’aspetto più triste, prosegue la naturalista, è che «per far fronte a una crisi irreparabile si è costretti a mettere a rischio il benessere e la vita delle future generazioni. Animali straordinari come elefanti e ippopotami, zebre e impala sono fondamentali per l’equilibrio di quel che rimane di ecosistemi naturali cruciali. Meno animali vuol dire un territorio più prono alle crisi e di conseguenza più fame e miseria».

MA GLI ELEFANTI (insieme agli altri grandi erbivori selvatici) sono «troppi» in Africa, vista anche la crisi ambientale? Si stima che fossero 5 milioni cento anni fa; poi il bracconaggio e la caccia a tappeto per l’avorio e la carne li avevano quasi azzerati. Nei decenni scorsi, leggi e impegno nella conservazione li hanno riportati intorno ai 500.000, fra elefanti di savana (Loxodonta africana) e di foresta (Loxodonta cyclotis). Comunque, nel 2021 l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) ha classificato i primi fra le specie in pericolo, e i secondi fra quelle fortemente in pericolo, a causa della perdita di habitat e del bracconaggio.

Con la crescita demografica umana, fra fauna selvatica e comunità si è accentuata la competizione per gli habitat, l’acqua e le risorse, peggiorata dalla crisi climatica. Una tempesta perfetta. Pesa molto anche il fattore bestiame al pascolo – che risale all’epoca coloniale, con le recinzioni sanitarie a interrompere gli habitat selvatici. Uno studio del 2016 in Kenya spiegava con l’aumento degli allevamenti, in concorso con gli eventi atmosferici (che non sono una novità di oggi), il grande declino della fauna selvatica nei venti anni precedenti, malgrado l’allora vigente divieto di caccia.

Negli ultimi anni, diversi paesi hanno sostenuto che la sovrappopolazione dei selvatici provoca erosione dei suoli per eccesso di pascolo, degrado degli habitat e, nel caso degli elefanti, conflitti con il mondo umano: distruzione dei raccolti, danni agli alberi da frutto e a strutture, incidenti mortali con vittime (ma in Sri Lanka sono molte di più). Anche con questa motivazione, il Botswana (130.000 elefanti di savana) nel 2019 aveva reintrodotto il trophy hunting (caccia «sportiva»), dopo 5 anni di bando; qualche centinaio di licenze. La Namibia non è nuova a una gestione faunistica che prevede questo tipo di caccia e abbattimenti selettivi anche all’interno di aree protette. Davanti alle proteste internazionali, Zimbabwe e Botswana hanno provocatoriamente proposto in regalo 40.000 elefanti africani a chi li voglia gestire; facendo anche presente sia la responsabilità climatica degli altri continenti nell’acuirsi della crisi sia la mancata tutela dei selvatici nello stesso Occidente. Insomma: «Da che pulpito le vostre prediche».

ARRIVARE A UN EQUILIBRIO fra fauna selvatica e attività umane è necessario per tutti. «In un’Africa deforestata e degradata, il circolo vizioso della siccità si completa», avverte Pratesi. Ma non c’è una ricetta unica. Essenziale la protezione degli habitat, comprese le «strade degli elefanti»; su questo, l’Eco-Exist Project nel Botswana settentrionale lavora con le comunità. Spostare gli elefanti in aree sotto-popolate? Operazione molto laboriosa, fattibile solo per piccoli numeri. La sterilizzazione? Nonviolenta ma costosa e irreversibile. Il trophy hunting può nuocere al turismo, eliminare gli adulti guida che disciplinano i giovani, andare a vantaggio di grossi imprenditori anziché delle popolazioni locali. C’è il sistema delle communal wildlife conservancies, proprio in Namibia: istituzioni comunitarie ottengono diritti condizionali ad avvalersi della fauna selvatica per varie attività, in primis il turismo con il suo indotto, ma anche la caccia. Tuttavia, perché soddisfare un’arcaica passione dell’uccidere coltivata dai ricchi safaristi? Progetti locali valorizzano piuttosto un uso eco-equo della fauna selvatica. Si provano sul campo anche soluzioni deterrenti non violente e locali – certo laboriose – per proteggere animali e raccolti al tempo stesso: tenendoli separati. Preparati con peperoncino (protagonista del film Chillies to the Rescue, in Tanzania), insopportabile per la mucosa olfattiva dei pachidermi. E intorno ai campi, arnie di api, temutissime dagli elefanti, oltretutto con la nutriente ricaduta del miele.

Ma la siccità rende la vita difficile anche a questi insetti operosi.

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