Carles Viñas, pallone e politica dall’impero zarista all’Urss di Jašin
L’uomo sovietico, secondo Trockij, doveva sopravanzare l’Homo sapiens, non solo emendandone l’individualismo, ma guarendo la sua pigrizia, anche con l’attività fisica. Se però è vero che, tra tutti gli sport, il calcio ci riconnette con «la preistoria dei nostri movimenti» – poiché esclude dal gioco le mani e le braccia, gli arti più «teoretici», secondo Vladimir Dimitrijevic – allora sembra quanto di più distante dalla tensione al futuro propria del comunismo. Eppure, la storia testimonia che un abbraccio tra la disciplina «sistematizzata» da Thomas Arnold, all’università di Rugby, nella prima metà dell’Ottocento e la dottrina politica elaborata da Marx ed Engels nello stesso giro d’anni, c’è stato, eccome.
Negli albi è certificato da due eventi simbolici: la vittoria dell’Urss ai campionati europei del 1960, in piena Guerra fredda, e il Pallone d’oro assegnato al suo portiere Lev Jašin (trionfi a cui aveva fatto da ouverture la medaglia d’oro olimpica a Melbourne 1956). È noto che, a oggi, Jašin è l’unico portiere premiato con il riconoscimento di «France Football», e forse non è un caso che venisse da oltre cortina: nell’Occidente dell’egoismo capitalista è l’attaccante o l’inventore di gioco a mettersi in luce, mentre nel mondo sovietico l’eroe è il portiere: baluardo del socialismo, «ultima difesa» contro gli inganni delle società borghesi.
Eppure, le cose non sono così semplici. Lo dimostra L’arte del calcio sovietico (il Saggiatore, traduzione di Simone Cattaneo, pp. 186, € 16,00), libro dal titolo italiano un po’ fuorviante, che ammicca ai lettori di Osvaldo Soriano ed Eduardo Galeano, o a quelli di Dimitrijevic (fondatore delle edizioni L’Âge d’Homme e cultore dello sport; sua la raccolta di divagazioni e memorie apparse nel 2000 da Adelphi con il titolo La vita è un pallone rotondo). Il volume di Carles Viñas – storico dell’Università di Barcellona attento ai rapporti tra sport e società – è invece tutt’altro che una fantasmagoria letteraria sul calcio nella Russia comunista, come si potrebbe essere indotti a pensare. Si tratta, al contrario, di una documentata ricostruzione dei suoi esordi tra la fine dell’epoca zarista e il consolidarsi del regime sovietico negli anni venti. Per arrivare a Jašin e alla finale di Parigi del 1960 c’è un balzo di tre decenni che il libro abbozza soltanto, nell’epilogo. È però proprio nelle ultime pagine che Viñas disegna il profilo del portiere come prototipo dell’eroe sovietico: una figura che, retrospettivamente, ci aiuta a capire le origini dello sport alla fine del secolo precedente. Soprattutto se si pensa a quanto, sull’allure del portiere, scriveva un grande russo che di bolscevismo non voleva neanche sentir parlare: Vladimir Nabokov. Per lui, l’estremo difensore è l’«aquila solitaria, l’uomo del mistero» che si distingue nel vestiario dai compagni e che in seduzione «gareggia con il matador e con l’asso dell’aeronautica».
Nabokov, di famiglia liberale, agiata e anglofila, difendeva la porta a Cambridge, durante gli studi al Trinity College, dopo aver passato notti insonni a comporre versi (così scrive nell’autobiografia). Il suo ambiente di provenienza rappresenta l’esempio perfetto di quello strato sociale della popolazione russa in cui, in un primo momento, attecchì il gioco del calcio. Con la concessione all’ingresso di capitali stranieri, il regime zarista, alla fine dell’Ottocento, sperava di modernizzare l’economia: portatori di innovazione, non soltanto nel campo dell’industria, furono soprattutto colonie di inglesi (provenienti in gran parte dal Lancashire e tifosi del leggendario Balckburn Rovers), che diffusero lo sport. Da pratica circoscritta ai club elitari delle città (San Pietroburgo in particolare), a moda che suscitava le diffidenze del clero ortodosso, il calcio fu introdotto nelle fabbriche dove gli inglesi lavoravano come dirigenti per un preciso progetto: guarire i lavoratori dall’alcol e distrarli dall’attivismo politico e dalla sedizione. Tale progetto naufragò, perché l’alcol continuò a essere consumato anche a bordo campo e l’aggregazione sportiva favorì la solidarietà di classe tra gli operai, ma quel che è certo è che il calcio mise le radici nel popolo.
Già in questa fase emergeva la domanda a cui il potere, sia zarista che sovietico, cercò poi sempre con inquietudine di trovare una risposta: il calcio è uno strumento adattabile a strategie politiche e militari (un mascherato allenamento alla battaglia, o alla lotta di classe) o una forza di dissoluzione? A differenza di molti bolscevichi, per esempio, Lenin aveva praticato diversi sport e li apprezzava, anche quelli competitivi come il calcio (ma il suo favorito erano gli scacchi): ne intuiva il potere emancipatorio, auspicando la partecipazione delle donne in vista di un orizzonte di eguaglianza tra i sessi. Negli anni venti, tra la classe dirigente sovietica, si accese un dibattito tra due concezioni dello sport – l’igienista e la proletkultista – che aveva al centro proprio l’idea di competitività e di rifondazione della cultura proletaria: l’intransigenza proletkultista verso gli sport borghesi ne uscì sconfitta (anche se non mancarono persecuzioni di esponenti dell’uno e dell’altro schieramento), e i vertici della politica sovietica si attestarono su una posizione di arcigno realismo. La fizkultura (l’educazione fisica promossa dallo Stato, con il calcio come punta di diamante) era preparazione permanente alla guerra e all’efficienza industriale, e la nazionale sovietica il primo strumento per spezzare l’isolamento diplomatico del Paese dopo la Guerra civile. Poco importava che, davanti a una facciata di specchiato dilettantismo (poiché il professionismo sportivo era proibito), le squadre intavolassero un mercato nero di giocatori non troppo diverso da quello delle odiate nazioni capitaliste. E che, sugli spalti, i tifosi si accendessero contro il Cska (la squadra dell’esercito) e soprattutto contro la Dinamo Mosca – la «spazzatura» (musor) nel gergo dei piccoli criminali: la squadra della polizia e del ministero dell’Interno voluta dall’inquisitore Dzeržinskij, e prediletta dalla nomenklatura.
In Intransigenze, Nabokov racconta che l’ultima volta in cui giocò in porta era ormai un esule in Germania. Si risvegliò in infermeria, dopo aver ricevuto un colpo alla testa durante un’azione, con il pallone ancora stretto saldamente al corpo. Quell’abbraccio – ripensando alla ricostruzione storica di Viñas e, all’estremo opposto, all’esperienza corrente di uno sport ultracapitalista, dominato dalla finanza – ci appare come il simbolo della resistenza del calcio a ogni uso politico, o piuttosto come il segno della sua velenosa complicità con qualsiasi sistema di potere?
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento