Cara Ilaria, ti scrivo dal carcere e ti lancio un pezzo di lenzuolo
Potete leggere qui la risposta di Ilaria Salis
Cara Ilaria,
ti scrivo nella speranza che in questo marasma di parole, la solidarietà espressa dal linguaggio non abbia ancora perso ogni significato. Ti scrivo per lanciarti nonostante la lontananza e le privazioni, un pezzo di lenzuolo immaginario per farti evadere, con più forza, dalla tua situazione quotidiana.
So che ogni cosa familiare o desiderata se pensata dal carcere è una proiezione, come un’immagine immaginata in apnea. So che l’equilibrio tra fantasia e malinconia è sottile e che la nostalgia è un’amica dispettosa, ma figurarsi la solidarietà che c’è fuori, è un esercizio dell’immaginazione molto più reale di quanto sembri.
Per chi sta fuori non è facile immaginare cosa vuole dire rimanere in silenzio sdraiati sulla branda a guardare il soffitto nella speranza di sentire dentro il cuore la solidarietà, non è facile capire che quel silenzio, dentro, è un silenzio diverso, più simile ad un grido soffocato, ad un pensiero oppresso.
Perché le mura, i rumori delle chiavi, dei passi, delle televisioni, dalle aperture e dalle chiusure opprimono il silenzio soffocandolo pian piano.
Le giornate interminabili e i mesi che passano veloci. Lo so, è per tutti così. Il tempo continua inesorabilmente a passare e il problema principale per i detenuti è come occuparlo senza lasciarlo passare in sordina sdraiati o in ore di sonno forzato. Non possiamo lasciarci scandire dai pasti, dalla chiusura delle luci, dall’apertura delle celle o da qualsiasi altro cambiamento dettato dal regime carcerario. Bisogna piuttosto considerare questi momenti come funzioni accessorie, orologi e sveglie sparsi qua e la durante la giornata per indicarci a che punto siamo nella routine.
Immagino che in tanti prima di me te l’abbiano già detto: leggi, scrivi, disegna, impara l’ungherese, leggi in ungherese, insegna l’italiano, fai attività fisica, cura il tuo aspetto, pulisci le piastrelle della cella con un vecchio spazzolino, tutto purché sia un’occupazione fisica, celebrale o tutte e due insieme. Come la più implacabile borghesia milanese, scandisci il tempo a gruppi di ore secondo le tue attività, e non secondo quelle dettate dai tuoi carcerieri.
Combatti l’apatia che ti si appiccica addosso anche quando la si vuole tenere a distanza, lo so che è difficile, ma per la posizione in cui sei non ci sono alternative. Immagino la difficoltà del dialogo con chi ti circonda, le interruzioni e le incomprensioni, immagino il colore delle mura che ti circondano, le crepe del soffitto e il rumore in testa nelle notti insonni. Resisti e combatti.
Ti scrivo per dirti che siamo tutti naufraghi, fuori e dentro le prigioni, testimoni dal peso delle ingiustizie che invece di diminuire si vanno a moltiplicare mentre a fronte di esse nuovi movimenti crescono e cercano di rischiarare gli orizzonti dal grigiore dalla forza sorda, della sopraffazione e dell’indifferenza.
Da qui, possiamo dirti, che nonostante le previsioni disastrose sullo scenario attuale, giorno dopo giorno continuano a crescere e ramificarsi le idee che ci uniscono, tante voci unite in tante radici in ogni angolo del mondo. Dalla forza creativa della solidarietà possiamo e dobbiamo aspettarci qualcosa di buono, senza sapere se arriverà a rompere il potere coercitivo, gli equilibri meschini, le alleanze infime, tutto questo non lo possiamo sapere, ma non demordiamo dallo sforzo di vivere il presente con un’idea ben precisa di futuro. Combattiamo contro il domani che ci è gentilmente concesso e contro la paura dell’apocalisse prossima ventura.
Anche se fosse vero che non c’è modo di ricomporre un presente frammentato e atomizzato, noi non smettiamo di riconoscerci l’uno nel desiderio dell’altro, come i movimenti si sono sempre riconosciuti nelle idee e le strategie nelle azioni. Le autonomie resistono, noi, nonostante tutto resistiamo. Cara Ilaria, resisti con noi.
Dietro questo nome di fantasia si nasconde uno dei 61mila detenuti nelle carceri italiane
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